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Sono piegato nel cofano aperto dell'Audi. Luis sta seduto per terra con le gambe incrociate e mi passa gli attrezzi, quello che si sporca sono io. Ma ingrassarmi le mani con questo capolavoro di ingranaggi che ancora scintillano di nuovo e potente mi eccita. La cosa peggiore è doverlo sopportare, dover ascoltare da oltre un'ora le sue cazzate: ha cominciato con la storia della grigliata in giardino che farà domani sera, con la preghiera di esserci anch'io, e poi si è lanciato sulle scorte di bistecche e di alcolici che dovrà fare. Il problema è stato dovergli rispondere mentre elencava la spesa e io lavoravo. Una turbina e uno stinco di maiale, una chiave inglese e una costoletta d'agnello, uno straccio per pulirmi e una bottiglia di Chianti Gran Riserva. Nella mia testa frullava solo l'istinto di derubarlo della borsa con gli attrezzi e di capire come fare, dato che sto a piedi e dovrò farmi dieci chilometri per tornare al Porto.

«Accendi!», dico.

Luis scatta e si mette al volante.

«Dai gas», ordino.

Il motore ruggisce, poi sfiata, poi rantola di nuovo.

«Spegni.»

Lei, la dea bionda, la madre, Elisabetta, si è affacciata già tre volte: prima per offrire il suo aiuto, e la cosa ha suscitato solo sorrisi ironici; poi per portare tè verde, e stavolta lo abbiamo rifiutato senza esitazione e in coro; infine ha proposto tartine e non le abbiamo nemmeno risposto. Trovo assurdo smontare un cilindro mentre uno mi parla di fare un party in piscina e l'altra mi offre caviale, mi pare di essere impazzito io stesso a trovarmi qui, mi vedo da fuori come se mi volassi intorno e sono un coglione che perde tempo e dovrebbe scappare ma resta immobile.

«Accendi!», ordino di nuovo.

Luis esegue e sembra già seccato.

Il motore ruggisce e poi rantola.

«Spegni.»

Non ho perso il tarlo, anzi m'è peggiorato: se me ne vado, dove vado? Se scappo, dove scappo? E se poi vado a stare peggio? Se poi nessuno mi aiuterà più? Se perderò tutti gli amici e il loro rispetto? Finché resto immobile ogni cosa intorno fa lo stesso, e non fa paura. Però così non sono felice. Così non sono me stesso. Mi faccio schifo. Sono un vigliacco. A uno come me non gli rivolgerei manco la parola. Ho fatto bene solo una cosa: ho resistito alla tentazione di trascinare nel mio buco nero anche Lara, lei l'ho salvata da me. L'unica cosa che ho fatto bene. Anche se, senza di lei, oltre che immobile mi sento perso.

Mi asciugo la fronte e mi siedo, ginocchia al petto, sporco e stanco.

«Niente», dico, «riportatela indietro e fatevela sostituire».

Luis alza le spalle, «Tanto il colore non mi piaceva, la preferivo nera».

Ora ringhio: «Non vuoi manco sapere che c'ha?».

E lui ride, «Che mi frega di saperlo se non si può riparare. Io mi fido di quello che mi dici tu, sei tu che te ne intendi».

Trattengo nel pugno stretto a morte il colpo che gli vorrei sferrare in faccia e parlo piano, calmo come un razzo inesploso.

«Non c'entra un cazzo, è una questione di rispetto. Io c'ho perso tempo e tu dovresti chiedermi qualcosa.»

Ma Luis scuote la testa: «Sì, infatti ti chiedo quanto ti devo per il disturbo».

Dalla tasca del pantalone tira fuori un portafoglio di pelle ed estrae una mazzetta di banconote da centomila lire.

Sono fuori di me, mi metto in piedi e lo fisso a mento basso e con gli occhi pieni di rabbia ridotti a una fessura. «Sono banconote buone, o segnate, quelle? Non accetto soldi falsi.»

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora