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Sto fuori di testa. Non lo so se sto facendo la cosa giusta, a me sembra che faccio solo quello che devo. Devo aiutare mio padre, devo proteggere il gruppo, devo mentire a Love, devo salvarmi la pelle. Dove, in tutti questi devo, c'è un voglio?

Osservo il biglietto da visita nella mano ferita, c'è sangue, stringere alla gola il Gommista mi ha riaperto lo sgarro sul palmo. Alzo lo sguardo a un orizzonte che oggi promette sole da spaccare la testa. Laggiù, in quella linea sottile di mare affogato di luce c'è solo una cosa che mi aspetta: l'emicrania.

Infilo il casco e parto rombando dalla spiaggia alla strada e in poco supero i duecento. So dove sta la casa, conosco la zona: le ville bianche sulla scogliera al bivio tra Fregene e Fiumicino. Roba per gente che non ha mai dovuto alzarsi presto o preoccuparsi per una multa. E mio padre dice che Pierluigi piacerebbe a mia madre.

Alle quattro in punto sono arrivato e voglio proprio farmi una risata, farò passare la voglia a questa gente di giocare con quelli che non c'hanno una lira.

Spengo il motore davanti a un cancello in ferro battuto con i disegni floreali scolpiti e gli spuntoni in cima, sembra l'ingresso a una prigione dorata, quella di Dracula. Non vedo citofoni, come lo chiamo, 'sto coglione?

Smonto e mi avvicino alle sbarre, spio l'interno poi mi osservo: puzzo di smog, ho la maglietta strappata, i capelli che gocciano e le scarpe che buttano sabbia, sarò abbastanza impresentabile? Resto qua per un po' e mi brucia il palmo ferito e mi stordisce il sole a picco. Non c'è modo di entrare, si sono proprio trincerati bene, questi pezzi di merda; io me ne vado.

Faccio dietrofront e mi rimetto il casco.

Cerca qualcuno?, sento.

Non tolgo il casco ma mi volto a osservare la donna che ha parlato.

Lei ripete: posso aiutarla?

A questo punto faccio un respiro profondo e con tutto il casco in testa mi avvicino al cancello. Lei è qualcosa di mai visto: una degna immortale. Curve perfette coperte appena da una vestaglietta corta e scollata color avorio, le cosce sono lunghe e i piedi sono nudi, solo delle infradito dorate. Ha dei denti perfetti, non mi piacciono le bionde ma questa.

Le parlo attraverso le sbarre: «Cercavo Luis».

Si acciglia.

«Cioè, Pierluigi Macchi. Cerco Pierluigi.»

Lei fa scattare l'apertura del cancello e mi fa entrare.

Sfilo il casco e me lo tengo sotto al braccio. Noto che mi tiene nell'inquadratura più di qualche secondo, resta fissa su di me e fa un'espressione meravigliata ma non dice niente.

Poi fa strada. Io la seguo a pochi passi di distanza mentre cammina sinuosa che quasi plana.

«Non ti ho mai visto, sei un suo amico?».

Le sto dietro e mi ordino di smettere di fissarle quel culo sodo, e finisco a guardarmi i piedi come se contare i passi che faccio fosse l'unico modo per capire dove sto andando a finire.

Dico: «No. L'ho visto solo una volta. Questa è la seconda».

Lei mi guarda come un demone che cattura al lazo un angelo.

«Io sono Elisabetta.»

Non mi pare importante presentarmi e non sorrido e non replico.

Lei smette di essere gentile, fa un mezzo giro veloce e accelera senza più voltarsi: «Sempre dritto, lo trovi dietro al portico».

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora