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Ci devo andare anche se non mi va. A casa, dico, ci devo tornare per forza. Mi serve una doccia, mi serve la giacca, mi serve che mio padre la smetta una buona volta di trattarmi come un rifiuto, che già lo ha fatto Love. Ma da sola stasera non ce la lascio, ho fatto una promessa e la mantengo: io la devo proteggere. Lei è solo una bambina, è ingenua, è pulita. Quelli me la sporcano, io li ammazzo.

Giro la chiave nella toppa, per fortuna papà non ha cambiato la serratura, forse non mi odia abbastanza, o forse non ne ha avuto il tempo. Spingo e il cigolio annuncia il mio rientro pure se cammino felpato.

Dalla cucina arriva la voce del telegiornale che si propaga per tutta la casa come se a guardarlo ci fosse un mezzo sordo.

Mi affaccio sulla porta e vedo le immagini di un arresto.

Smantellata la banda che negli ultimi dieci mesi ha messo a segno numerose rapine a mano armata lungo il litorale tirrenico, da Ostia a Fregene fino a Torre in Pietra. Le indagini indicano come il denaro venisse reinvestito nello spaccio di cocaina e di eroina per conto di un clan mafioso. Coinvolta la cupola siciliana che faceva affari sulla costa romana, si cercano ancora esponenti della Roma bene e i mandanti del ... .

Mio padre non si è accorto di me, schiarisce la gola dal catarro della centesima Marlboro e risponde al televisore come se parlasse a lui: «Col cazzo che l'avete smantellata, quelli stanno tutti giù alla rotonda, coglioni! Andateli a prendere invece di grattarvi le palle!»

«Papà?»

Lui fa un salto, la sua pancia prominente che pare un cocomero scartato, per come la maglietta scopre l'ombelico, ha sobbalzato per lo spavento. Non si è rasato, non si è pettinato, puzza di Peroni e tabacco, sta con i piedi annegati nella bacinella dei panni, acqua e sale, sento l'odore. Afferra il telecomando e lo punta verso lo schermo, il volume piomba giù ma lui non riesce a guardarmi perché il suo collo si gira solo di pochi millimetri, ormai la sua cervicale è un ingranaggio inceppato.

«Che ti dispiace se mi faccio la doccia?»

Lui bofonchia, non parla, bofonchia un: «Non sprecare troppa acqua».

Faccio un respiro profondo. Non lo so, vorrei il suo perdono ma non lo posso mica implorare.

Lui non dice altro, punta di nuovo il telecomando come fosse un'arma e alza il volume al punto che fa vibrare i vetri della finestra. Il suo modo per tirare la linea di confine. Non insisto.


Tiro il filo e mi porto il telefono in fondo al corridoio per non fargli sentire quello che dico, giro la corona numerica con indecisione, il numero del vecchio non me lo ricordo mai. Era un sei o un nove? Merda. Lo rifaccio due volte, mi risponde una pizzeria. Alla fine ci azzecco, risponde Carletto, uno dei nostri che fa il turno a quest'ora da Gippo per il controllo della maledetta coca.

Mentre dice che va tutto bene, sotto si sente Gippo incazzato che gli chiede chi gli ha dato il permesso di rispondere al suo posto, che è casa sua. Mi stranisco all'istante.

Dico: «Ma oggi mi pare un po' nervosetto, il vecchio, sbaglio?».

Dall'altra parte Carletto fa una pausa, si tiene in bocca qualcosa e non me la vuole dire, tira il fiato.

Ci ho messo un'ora per farmi aprire la porta, oggi, non mi voleva far entrare, diceva che non mi conosce.

Beh, è chiaro che Gippo non conosce bene tutti i membri del Porto, mi dico.

«Ma le scatole sono ancora nell'altra stanza, hai controllato?»

Non mi ci fa entrare ma è ovvio che sì, stiamo sempre a fare i turni e questo: o rompe le palle o ridipinge le pareti per l'asma o fa yoga, per cui a meno che non hanno le gambe per scappare le scatole sono ancora lì.

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora