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Il Porto non è un porto è uno stabilimento dismesso che si chiama Il Porto e che io e il mio gruppo usiamo come rimessa, punto di incontro, per fare riunioni e festini e per far transitare la roba che ricettiamo. Il comune ci ha messo i sigilli perché era stato rilevato dalla mala locale e un'indagine bella grossa ha ottenuto che si confiscassero tutti i loro terreni e stabilimenti. È diventato il nostro posto, il nostro ritrovo, nessuno ci caccia. Cisco, il mio vice, è il nipote del camorrista incarcerato che se l'è intestato. E pure se fosse una delle sue tante cazzate, finora non ci hanno cacciato. E lo sanno tutti che noi siamo lì, perché non ci nascondiamo mica, e siamo molto rumorosi.

Siamo una ventina, uno più uno meno a seconda dei periodi, tutti amici di cugini e di fratelli che nel tempo si sono inseriti, accodati, imbucati

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Siamo una ventina, uno più uno meno a seconda dei periodi, tutti amici di cugini e di fratelli che nel tempo si sono inseriti, accodati, imbucati. Ma i miei veri amici, quelli che con me hanno diviso dal cesso alla questura, sono quattro, lo dico sempre: noi siamo le dita di una mano. Ci sono i fratelli De Scafo, di Forcella, Cisco e Tarzan, fanno i muratori di giorno e hanno un passato da ladri d'appartamento che saltano sui terrazzi come scimmie; c'è Robertone, lo chiamiamo così perché è un gigante e fa i lavori pesanti, di giorno fa il manovale, e poi c'è Massimo, suo cugino, un fabbro abile e un amico fidato, e loro sono di Cerveteri. Adesso vivono tutti qui a Fregene ma solo io e Love ci siamo nati. Non ce n'è tanta di gente che fa crescere i figli in un cazzo di posto di villeggiatura dove otto mesi all'anno sembra di vagare sulla Terra dopo l'estinzione. Io e Love siamo andati a scuola insieme, abbiamo il diploma di ragionieri. E nella vita facciamo tutto meno che ragionare.

Al Porto c'è il divieto di accesso ai non autorizzati, le indagini sono state archiviate come capita quando non te ne frega un cazzo di sequestrare un posto di merda che casca a pezzi, ma non hanno ancora tolto i sigilli. Per entrare dobbiamo passare dal vialetto privato di una casa abusiva che accede alla spiaggia. Il proprietario della casa è un guerrafondaio che adesso sta a Rebibbia e fino all'anno prossimo non ci farà fare il giro lungo. Un vecchio amico, vecchio pure di fatto, c'ha settant'anni. Adesso fa solo il carcerato ma prima era un giocatore d'azzardo incallito con la passione per le prostitute di colore. Sembrerebbe un cliché ma la verità è che prima ancora era un uomo sposato con due figlie femmine e una Station Wagon e un lavoro da portiere d'albergo. Poi ha perso tutto. Non so come, so solo che non si capisce se era un cliché nella vita di prima o in quella di dopo. Ma quello che fa adesso, cioè stare in carcere, non mi pare tanto banale. Mica ci vanno a finire tutti.

Comunque, siamo costretti a passare dal suo vialetto perché Fregene, per chi non la conosce, è una specie di labirinto: per andare in spiaggia si deve attraversare un villaggio di case e ville e stabilimenti costruito come il muro di Berlino davanti al mare e finché non entri nei tanti corridoi d'accesso che sbucano sulle spiagge non sei neanche certo di trovarlo, il mare.

Mi ricordo di uno, tanto tempo fa, che veniva da Ravenna e voleva farsi una camminata sulla sabbia, era inverno. Questo vagava avanti e indietro come un disperato e alla fine me lo sono trovato davanti a supplicare me, l'unico essere vivente nel raggio di chilometri, per sapere dove cazzo fosse il maledetto mare con la spiaggia, perché lui riusciva a vedere solo case basse e bianche e un sacco di insegne che promettevano pesci e onde che però parevano un miraggio. Non gli è parso vero quando gli ho spiegato che era finito nell'unico posto al mondo che ha recintato il mare e lo ha nascosto così bene che preferisci Ladispoli. Almeno lì, e mi fa schifo lo stesso, c'è il lungomare, la classica strada che costeggia le spiagge e compagnia bella. Ma Fregene non costeggia e non rivela, è omertosa come un camorrista geloso e complicata come una formula chimica. Mi sta bene. Se c'era il lungomare c'erano pure i coglioni che fanno le vasche avanti e indietro e io, quelli che fanno le vasche, non li reggo. Qui la vasca non te la puoi fare, 'fanculo, vai a Maccarese, se proprio non puoi fare a meno di sembrare un coglione.

Arrivo al Porto sgasando e il ruggito della mia bambina tuona sulla ghiaia del retro. Mi viene incontro Massimo con una cicca in bocca e i capelli bagnati.

«Hai fatto i soldi, capo?», e mi assesta una pacca sulla spalla.

Smonto e ammiro la mia opera d'arte.

«Me la sono ricostruita da solo, è venuta bene, no?»

«Potresti fare il meccanico o il carrozziere, 'ste cose ti riescono bene.»

Gli metto un braccio intorno al collo e ce ne andiamo verso l'entrata al covo.

«Certo», dico, «quando decido di mettere la testa a posto ci faccio un pensierino», sfilo il foglio accartocciato dalla tasca del jeans e glielo mostro, «per ora ho un affare che ci farà guadagnare mille volte tanto. Raduna tutti.»


Il sole è tramontato e noi siamo seduti per terra, una dozzina di amici, sotto al portico aperto sulla spiaggia. C'è sabbia dappertutto, le assi di legno della tettoia sono fragili, mangiate dalla salsedine e dal tempo ma noi siamo incrollabili, tutti a fissarci negli occhi con la forza della disperazione condivisa, quella roba che sta sulla faccia di chi non ha un futuro, ha solo il presente.

Finisco il mio discorso e mi rivolgo direttamente ai miei quattro vice, perché tutti beneficeranno delle entrate di questo colpo, ma saremo noi cinque a farlo. Non mi fido di nessun altro.

«Stavolta ci entrano minimo otto milioni e mezzo, levando le spese. È un carico grosso: tre set da otto gomme quattro stagioni che reggono fino a mille chilogrammi di peso. Un totale di ventiquattro gomme da trecentocinquantamila lire cadauna.»

Massimo spegne la cicca per terra. «Ma stavolta derubi tuo padre.»

Lo guardo male, perché la frase mi ha preso male. In fondo a mio padre frega cazzi di quello che voglio, basta che faccio quello che vuole lui.

È Cisco a parlare, con la voce strafottente e la faccia da impunito: «Guaglió, che c'entra? Quelli sono assicurati, deruba il capo ricco, non o' pate.»

Un colpo di tosse e cerco di tornare lucido. Dico: «Sì, l'assicurazione le risarcirà. Adesso concentriamoci sul piano. Tre giorni. Il tempo di farle depositare e registrare, nel fine settimana non fanno smontaggi, le monteranno lunedì. Dobbiamo rubarle domenica notte.»

Discutiamo i dettagli per una buona mezz'ora, non è che c'è molto da fare, ho le chiavi, conosco la rimessa come le mie tasche, ho la scheda dei turni di sorveglianza e so per certo che i due guardiani di notte dormono e bivaccano e se ne fottono, sono due mangiapane a tradimento, non saranno un problema. Questo sarà il furto più facile di sempre.

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora