Alle quattro del pomeriggio entriamo all'autorimessa dove i camion vanno a dormire e a fare il pieno. La tortura è finita, ce ne andiamo a casa. Non mi pare vero.
Faccio una manovra stretta, quasi mi carico un palo.
«Attento che me lo fanno ripagare», dice mio padre che ora si guarda intorno preoccupato.
Sospiro, «Cosa, la fiancata o il palo? O entrambi?».
«Parcheggia dietro al camion di Barini, quello blu, che se ci vede il capo s'incazza. Non ho l'autorizzazione per farti guidare.»
«Quanti cazzi, papà. Hai consegnato le taniche puntuale e sei pure in anticipo. Allora? Che cazzo vuole quel miliardario di merda.»
«Falla finita, che quel miliardario di merda ci dà i soldi per pagare le bollette e un giorno sarà pure il tuo di capo.»
«Digli a quello spilorcio che 'sto camion c'ha le ruote arrivate, le deve cambiare.»
«Arrivano domani notte, un treno di ruote per me, Valle e Stolfi. So' un mese che glielo diciamo ma non è colpa sua.»
«No, è colpa del treno.»
Spengo il motore e il ruggito sfiata. Ma da lontano, lungo il piazzale, di ruggito ne sento un altro e questo è diverso, è cattivo, pulito, sa di soldi. Questo non scarica, ringhia: è la voce di una Ferrari 355 Spider rossa come un cerino acceso.
Papà si asciuga il sudore dalla fronte e a stento riesce a girarsi, ha la cervicale all'ultimo stadio, quello in cui si sta per svitare dal collo e addio testa.
Bofonchia. «C'è il figlio, allora c'è pure lui. Speriamo che non ci ha visto.»
Arriverà il giorno che la gente con le macchine che costano come case si schianterà sulla A1. Quel giorno io sarò accovacciato sulla corsia d'emergenza col pop-corn. Ad applaudire. E a chiedere il bis.
«Vieni, accompagnami», dice mio padre.
Il sole non picchia più come prima ma io sono zuppo, la maglietta la posso pure strizzare. Sento mio padre con l'affanno che cammina piano e respira forte, c'ha il cuore che non regge, deve smetterla di farsi le tratte più lunghe, glielo devo dire a quel bastardo del suo capo milionario. Assumesse gente giovane.
Entriamo in officina, c'è una scrivania improvvisata e piena zeppa di scartoffie, quasi tutti volantini dell'autorimessa. Butto un occhio sull'ordine che sta impilato in cima a una pensilina, e mi sposto piano, allungo la mano e afferro il foglio, me lo ficco in tasca e torno accanto a mio padre. Oltre il vetro di una stanza insonorizzata il capo e suo figlio parlano e si muovono come due che stanno discutendo di brutto. Il figlio non ci viene spesso qui, non è posto per lui. Non gli presto attenzione, mi sta sul cazzo a prescindere. Mi fisso sul capo che ci fa aspettare pure dopo tre giorni di chilometri. Alla fine si decide e apre la porta, fa un cenno a mio padre e a me. Ci avviciniamo e il ragazzo ricco ci passa di lato, ci ignora e si defila.
Il capo, tale Arturo Macchi, apre le braccia a un sorriso falso.
«Riva! Sei sempre il primo a tornare, prima o poi ti do l'aumento.»
Fa pure lo spiritoso. Quando glielo dai, l'aumento, stronzo, quando crepa? Tra sei mesi va in pensione.
«Sì, signore, grazie, signore», mio padre quasi s'inchina.
Odio 'sto suo servilismo, odio vederlo così remissivo davanti a uno che lo sfrutta e lo prende per il culo.
E ora l'usuraio fa lo stesso con me, o almeno ci prova, dice: «Ragazzo, hai fatto compagnia al tuo vecchio? Non ci vai al mare? Vedo che sei un po' pallido.»
Lo so che papà freme perché ha una paura fottuta che gli prendo a calci il capo, ma io non lo voglio fare il camionista e sto facendo in modo che quel giorno arrivi il più tardi possibile, per questo non posso farlo licenziare. Ma non lecco lo stesso. Non esiste.
«Al mare ci vanno i disoccupati e i falliti. Gli altri lavorano. Signore.»
Mio padre sbianca e si scusa a mani giunte, neanche gli avessi maledetto la nonna. «Oh, lo perdoni, capo, mio figlio è stanco e parla a vanvera.»
«No, invece, Riva, tuo figlio ha proprio ragione. È uno sveglio.» Poi si rivolge a me con un altro sorriso falso, «Sei in gamba ragazzo. Bravo. Lasciaci soli un momento, per favore, devo scambiare due parole col tuo vecchio».
Mi allontano volentieri, non ne potevo più di vedere la lingua di mio padre pulire il pavimento, spero solo che non lo stia per licenziare.
Mi faccio una ventina di passi in mezzo ai camion e mi fermo a cercare lo zippo. Mi ritrovo nel palmo il foglio che ho fregato e lo apro rapidamente: come pensavo, è l'ordine per i set di gomme, lo ripiego e frugo nelle tasche del jeans come un affamato, infilo in bocca la cicca e do qualche colpetto ma niente, non accende, è finita la benzina. Sbraito, mi muovo scomposto come uno che litiga con l'aria, non mi posso manco accendere una sigaretta. Va bene che finora me ne sono fumate sessantuno, però i tempi morti li odio, non li sopporto, aspettare senza fare un cazzo è contro natura.
Mezz'ora dopo siamo sulla via del ritorno a immaginare una doccia seria e un piatto di pastasciutta e io parlo di maccheroni e di spaghetti e papà guida la sua Volvo del novantuno come uno che gira i pedali, frenato, affannato.
«A papà, c'ho fame, spingi 'st'acceleratore.»
Lui balbetta, sembra in difficoltà, sta pure rallentando. «No, ti volevo chiedere un favore.»
«Già te l'ho fatto, un favore. Fregene Roma Roma Mestre e Mestre Roma Roma Fregene senza lavarmi per tre giorni.»
«Un altro favore», e svolta al bivio verso la litoranea.
«Che ti serve?»
Mi fa pena, non lo posso maltrattare, sembra un ragazzino mentre guarda la strada e chiede piano: «Il mio capo dice che gli farebbe bene a suo figlio svegliarsi un po', che dovrebbe uscire con te. Che tu lo potresti svegliare un po'.»
Un ragazzino impazzito.
Stringo i pugni e vado indietro con la schiena. Cerco di restare calmo mentre dico: «Il figlio del tuo capo non ha bisogno di svegliarsi, quello è un coglione.»
«Senti, Macchi dice che spende e spande i suoi soldi e che non conclude niente. Vorrebbe che qualcuno gli insegnasse la strada, perché solo così può aprire gli occhi.»
«La strada di cosa?»
«La strada. La vita. La vita di strada.»
«A pa', ma è una battuta? No, dillo che è una battuta, così rido. Mi avete preso per il cinese di Karate Kid?»
«Ma devi solo portartelo al pub una sera, ci parli, ci prendi una cosa, basta che il capo lo sa, mica pretende che ci esci tutti i giorni.» Mi passa un pezzo di carta con sopra scritto un numero di telefono. «Gli ho detto che lo chiami domani, verso l'ora di cena. Solo una volta, fammi contento.»
Merda quanto lo picchierei quando mi dice fammi contento che poi non gli riesco a dire di no.
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∞ nessuno muore per sempre ∞
RomansaCOMPLETA: RECENSIONE a cura di G. C.: Gli anni sono i '90. Quelli della musica dance nei jukebox, del Festivalbar e dei primi cellulari. Ma non solo. Sono anche gli anni d'oro dei primi amori al mare. Questo è lo sfondo su cui si muove Valerio detto...