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Il tempo che passa ha un odore. Come il vento, come la notte, ognuna di queste cose ha un odore. Io ho imparato a distinguerli e mi sono salvato. Quando sai che odore hanno le ore che passano sai pure quando fermarle, prima che ti arrivino addosso e ti travolgano. Ma queste cose non le dico mai ad alta voce perché mi prenderebbero per pazzo, qui tutti mi credono un leader, uno che non ha paura, che non si tira indietro. Non è vero. Io sono terrorizzato dal cambiamento, è il mio vero unico nemico. Per questo annuso il tempo che passa, per tenerlo a bada prima che mi cambi le carte in tavola sotto al naso e mi fotta.

Però certe volte vorrei prendere fiato, fermarmi e smettere di fissare il largo sapendo che non posso raggiungerlo. Certe volte vorrei essere anch'io laggiù, così lontano, così veloce che la morte non mi può afferrare, che niente mi può affondare. Vorrei essere eterno come i miei sensi di colpa, come il dovere che sento verso mio padre, come gli occhi di Love quando mi guardano. Eterno come le cose che non cambiano, che restano le stesse, perché sono incise dentro e non si possono smontare. Invece sono precario come il mondo sopra Fregene. Galleggio e imbarco acqua e la posa è sbilanciata, segno che sto lentamente naufragando.

Lungo la litoranea, al tredicesimo chilometro dell'Aurelia, tra Roma e Fregene, c'è la ditta dei camion dove lavora mio padre. A notte fonda, abbiamo parcheggiato il furgone rubato a pochi metri dal retro, siamo arrivati a fari spenti.

Il tempo è scaduto, il piano è pronto. È la notte in cui derubo il capo di mio padre. E adesso sto contando pure i secondi, perché tra meno di dieci, nove, otto...

«Hanno scaricato la fornitura di pneumatici nel magazzino», sussurro accovacciato tra le siepi intorno al recinto. Faccio segno ai miei di stare pronti, «Il terzo da sinistra, quello sverniciato. Non fate errori, che se entrate nel magazzino sbagliato ci sono i cani. Se abbaiano, svegliano le guardie».

Massimo si infila il passamontagna e fa un respiro profondo. «Tu lo sai che c'ho la fobia dei cani. Che sono, pastori tedeschi, maremmani, cosa?»

Se adesso gli dico che sono Dobermann addestrati all'attacco, questo inizia con una delle sue crisi da nevrotico, e invece mi serve calmo, è l'unico in grado di forzare una serratura. Quando non ruba fa il fabbro, con lui si entra ovunque. E io c'ho le chiavi solo del parco-auto, mica quelle del deposito.

Gli metto una mano sulla testa, «Vai con Dio e non ti preoccupare dei cani, sono Labrador, mi pare. Solo pelo e niente denti.»

«Guarda che pure i bassotti hanno i denti.»

«Muoviti, abbiamo un quarto d'ora.»

Strisciamo rapidi fino al lucchetto che sta annodato con la catena al recinto di metallo. Sfilo la chiave di mio padre dalla tasca e la ficco nella toppa, la giro piano mentre Cisco dietro di me sta pronto con le cesoie, per ogni evenienza. Il cancello fa uno scatto e si apre. Ci infiliamo dentro e corriamo quatti facendo lo slalom tra i camion. È la prima volta che faccio un colpo con un macigno sullo stomaco, non riesco a fregarmene che sto per rubarmi le ruote che servono a mio padre. Lo so che non le paga lui e che poi gliele ricompreranno, però mi da fastidio che domani partirà per la Slovenia con quelle gomme malandate.

«Che cazzo stai a fare, Rio?»

La voce bisbigliata di Massimo mi arriva addosso e mi sveglia.

È inutile, ormai, ripensarci, non posso tornare indietro, sono un sacco di soldi. Corro verso il magazzino. Mi raggiungono Cisco e Robertone.

Massimo è veloce, dice che la serratura è di quelle vecchie, che basta un soffio.

«Ecco, soffiaci sopra che è tardi», dico nervoso.

Ci sta piegato addosso e gira e smanetta che non capisco come fa ma la apre e quella cigola. Cisco scatta dentro e si lancia sugli imballaggi. Lo seguo e gli resto attaccato.

«Song troppì», sussurra. «Non sono tre set, qua c'è altra roba, ca' facimme?»

Resto di merda, non me l'aspettavo. Non so cosa ci stiamo rubando, spero solo che non sia robaccia inutile.

«Ci portiamo via tutto, non c'è tempo per fare le cernite», dico.

Massimo interviene: «Tarzan sta fuori col motore acceso, aspetta solo un segnale.»

Robertone si carica il primo imballaggio che peserà un fottio di chili come fosse una donna da portare via in braccio e si avvia senza stare a fare discorsi. È uno che fa solo fatti, mi piace per questo.

«Muoviamoci!», ordino.

Ci mettiamo a trasportare e trascinare gli imballati fuori dal recinto e li carichiamo nel furgone col motore acceso. Ci vuole un po', l'ultimo scatolone lo porta Cisco e siamo in ritardo sulla tabella di marcia, a minuti c'è il cambio della guardia e quelli che arrivano non sono addormentati come questi, sono ex militari incazzati con la smania di ammazzare qualunque cosa respiri nel posto sbagliato.

Io e Massimo ci accertiamo che lo scasso non risulti, rimettiamo tutto in ordine, chiudiamo e saldiamo. Ma a pochi passi dalla fuga, un ringhio feroce ci blocca sul posto. Ci voltiamo piano e un Dobermann con la bava sul muso mostra i denti aguzzi e ci minaccia e abbaia e ringhia a tratti.

Massimo ha il respiro convulso. «Te l'avevo detto, capo, che mi cago sotto. Labrador un cazzo, questa bestia è indemoniata, ci ammazza.»

«Stai calmo, non ti muovere», mi frugo nelle tasche, «che se ci scatta addosso attira i guardiani e quelli sono armati, altro che denti, c'hanno il ferro».

Tiro fuori un fazzoletto che avvolge una polpetta di carne cruda.

«Lo avveleni?», chiede Massimo mentre trema.

«No, cazzo dici, è narcotico. Spero solo che faccia effetto lampo, tra un po' gli altri ci mollano qui. Hanno l'ordine di partire, se qualcosa va storto.»

Lancio la carne e l'animale osserva il volo e l'atterraggio e nel farlo smette di ringhiare.

Massimo si lamenta: «E hanno l'ordine di filarsela pure se qualcuno resta indietro», e non la smette di fissare il cane. «Una regola davvero stronza, scusa se te lo dico. I soldati non lasciano mai nessuno indietro, noi invece sì.»

«Noi non siamo soldati, siamo criminali.»

Intanto il cucciolo affamato si guarda la polpetta con sospetto, non so chi lo abbia addestrato ma non mi spiego come non se la sia già masticata.

Vedo due luci che lampeggiano oltre il recinto. È il segnale, Tarzan ci fa i fari. Significa che tra un minuto se ne va.

«Il cane di merda ci sta pensando troppo, gliene lancio un'altra per distrarlo e ci mettiamo a correre. Al tre. Sei pronto?», e sfilo un pezzo di carne dalla tasca.

«Col cazzo che sono pronto, questo corre più veloce di noi due, so' sicuro.»

Non posso convincerlo, il terrore lo farà correre. Tiro la polpetta, e il cane, come da copione, la osserva volare alto.

Urlo: «Tre!», e mi metto a correre verso il recinto.

Massimo mi supera, lo sapevo che farsela addosso lo faceva diventare Mennea.

«C'insegue!», urla.

«Corri, cazzo!»

Ce lo abbiamo alle costole, è vero che il Dobermann è più veloce di noi, non ho scelta, prima che mi azzanni un polpaccio mi giro e gli assesto un calcio in mezzo alle zampe anteriori. Quello vola per terra e guaisce ma si rialza quasi subito. Mentre si riprende, saltiamo sulla rete e ci arrampichiamo. Non ho fatto in tempo a chiudere, scopriranno che qualcuno l'ha aperta con la chiave. Saltiamo giù e i latrati attirano l'attenzione della sorveglianza che accende le luci nella rimessa e fa scattare una sirena che sveglierà l'intero quartiere. 

Noi siamo già montati al volo sul furgone e Cisco ha chiuso il portello laterale mentre Tarzan è partito a razzo. Sgomma, stride, echeggia nell'aria della notte. L'aria che conosco. L'odore di salsedine e di benzina che, messi insieme all'adrenalina pura, sembrano la mia vita.

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora