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Sulla terra si vola anche, basta avere il motore giusto. 

Non ho scelto subito la moto, un tempo usavo le onde. Facevo surf. 

Quando cresci in un posto dove la gente viene solo d'estate e le uniche cose che hai a disposizione per non ammazzarti di noia sono la spiaggia e la birra, è facile che diventi un alcolizzato oppure un surfista.

All'inizio era eccitante più di qualunque scopata cavalcare le onde, starci sopra e dentro, mi faceva sentire il Re del mondo. Ho smesso quando ho capito che non ero io a decidere la direzione, ma loro.

C'è solo un posto a Fregene in cui si può surfare ed è sul lungomare di Levante, verso Fiumicino, è lì che sono diretto.

Sono sei mesi che non ci vengo, Giada invece non è mancata un giorno. La vedo mentre blocco la moto davanti alla scogliera, ci sono anche gli altri, quelli che prima erano il centro del mio mondo e ora sono solo un ricordo. Sono lì che ingrassano la tavola e infilano la muta, sono i soliti. Ma non mi va di salutare nessuno, volevo solo guardare le onde. Aspetto una manciata di minuti, scendo in spiaggia solo quando li vedo entrare in acqua con le tavole.

Adesso ho gli occhi puntati su queste onde: alte, veloci, bastarde. Non quella roba stirata e riscaldata giù a ponente, minestra per sfiniti di vita che villeggiano nei loro ultimi scampoli di libertà. Queste sono per quelli con le palle, che se crepano mentre ci corrono dentro realizzano un sogno.

Meglio essere ingoiati dal mare che sotterrati dalla vanga, era il nostro motto. Poi, non lo so, ho cambiato gruppo, mi sono trovato gente disposta a rischiare in un altro modo, un modo più sporco. E il motto ha suonato più così: meglio essere ingoiati dal lusso che sotterrati dai debiti.

Col casco sottobraccio e il vento in faccia cammino nella sabbia con tutte le scarpe, e sollevo spruzzi di polvere e ne imbarco anche ma poi sono al limite della battigia e finalmente respiro. Occhi chiusi, testa in alto, respiri lunghi e lenti e forse riesco a dimenticare che sto per derubare il capo di mio padre. Che se mi beccano lo licenziano. Che lo deluderei così tanto, se mi scoprisse, da battere persino il record lasciato da quella stronza di mia madre. 

«Valerio?»

È la voce acuta di Giada, inconfondibile.

Apro gli occhi e la guardo un attimo. Ha la muta, è zuppa, gli occhi di cioccolato e la pelle da marocchina che goccia e brilla al sole delle dieci, ma sono così stanco, non ho dormito un cazzo, che non riesco nemmeno a sorriderle.

Lei mi avvolge le braccia intorno al collo e se ne frega che sono immobile. Lo sa che lo sono, mi conosce. Immobile, dico.

Un tempo era la migliore amica di Love. Poi me la sono scopata e ho continuato a farlo per anni, e per qualche motivo lei e Love hanno rotto. Non si parlano da allora. Avevo diciassette anni e tra le due ho scelto Giada perché era facile, non faceva domande, non aveva grilli per la testa. Non lo so, Giada mi era sembrata la soluzione migliore. Non mi è mai andato di riflettere troppo; quando inizi a farlo e non ti sei sparato niente in circolo, i pensieri ti ammazzano di senso di colpa. Ho evitato. Ma per la loro amicizia rovinata mi sono sentito una merda.

Lei sta ancora stringendo, e mi ha bagnato la maglia e i capelli con le mani.

Ha la risata contagiosa. «Che bello! A cosa dobbiamo la visita? Che ti s'è sciolto?»

Poi passa mezz'ora e noi siamo seduti davanti a queste onde pazzesche col vento addosso e il sale in faccia e finora non abbiamo detto una parola.

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora