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Sono tre giorni che facciamo le ronde, non so quanto potrò ancora tirarla per le lunghe. Oggi dovrebbe tornare mio padre dalla tratta per la Slovenia e se non ha novità, se nessuno gli ha telefonato, sono nella merda.

Da oltre un'ora siamo appostati a fare la schiuma dentro alla Passat con quaranta gradi centigradi e spiamo l'interno del rimessaggio col binocolo dello zio di Massimo. Lui fuma come un dannato e manco mi rivolge più la parola. L'ultima cosa che ha detto è stata quanto deve durare ancora, 'sto teatrino. Più passa il tempo più ispezionare la rimessa perde senso. Faccio finta di non averlo capito, ma è chiaro che qui non è cambiato un cazzo, ci lavorano sempre gli stessi idioti, ci abbaiano sempre gli stessi due dobermann e la serratura del recinto è la medesima e io ho pure le chiavi. Farei meglio a dire la verità. Ma non posso.

«Vabbé», sbuffa Massimo, «ce ne andiamo? Me so' rotto. Voglio farmi un bagno.»

Nemmeno rispondo, mi metto dritto, getto il mozzicone dal finestrino e accendo il motore.

Per tutto il viaggio di ritorno non scambiamo nemmeno una battuta. Io non sono abituato ad apparire debole, devo tenere il punto, perderei il rispetto del gruppo se mi mettessi in dubbio da solo, ma inizio a sembrare un fissato.

Parcheggio dietro al Porto e Massimo scende al volo, manco mi saluta.

Io faccio il giro. Mi assicuro che il furgone del parrucchiere sia sempre nel retro, ben coperto dai teli, che gli altri cazzeggino come al solito giù in spiaggia e facciano avanti e indietro per controllare che nessuno si avvicini allo stabilimento e alla casa di Gippo, e poi decido di andarmene. Monto sulla mia Ducati e sgaso e piombo con un boato in strada.

In poco arrivo a duecento. L'ho tirata parecchio, in questi giorni, devo revisionarla prima che mi lasci a piedi.

Arrivo sotto casa, magari papà è tornato prima. Faccio il giro dell'isolato due volte ma niente, nella via non c'è traccia della sua Volvo.

Parcheggio, smonto, sfilo il casco, infilo la chiave nella toppa del portone e mi arriva all'orecchio il rombo di un'auto sportiva, nemmeno mi giro, potrei dire un'Audi, la guida una femmina, cambia troppo repentinamente la marcia, da gas per rallentare, aggiungo: la guida una femmina e non è capace ma deve essere ricca abbastanza da essersi tolta lo sfizio lo stesso. Quindi anche una presuntuosa. E non ho bisogno di verificare la mia teoria, è per forza così.

Giro la chiave, spingo l'anta del portone e mi sento chiamare.

Valerio? Scusami!

Una voce di donna.

Mi volto, il sole negli occhi, il casco sottobraccio, faccio un passo avanti. Femmina al volante di un'Audi 80, 1.8 cabriolet antracite che pare appena uscita dal concessionario. Un gioiello col motore a cinque valvole per cilindro e una potenza di 125 CV. Femmina che non merita un simile gioiello e soprattutto figura angelica che ho già visto da qualche parte. Mi avvicino, mi fermo a guardarla e me la ricordo: la donna che mi ha aperto, la dea bionda che vive a casa di Luis e correva mezza nuda sui prati facendosi prendere a gavettoni con lo Champagne.

Ha un cappello di paglia che pare una tettoia e due occhialoni da sole quadrati che le oscurano mezza faccia, ma la riconosco lo stesso, ce ne sono poche qui in giro così. Per il resto è quasi nuda: indossa solo un costume intero bianco e fasciante che mette in evidenza un davanzale da quarta misura e guida scalza. Sarà per questo che i pedali sembrano sfuggirle a ogni cambio di marcia.

Lei mi parla e non so dove guarda, trincerata com'è. Ha la voce da ragazzina, squillante, mi attrae come quelle cosce dorate e sode.

«Sono Elisabetta, ti ricordi? Mi dicono che sei un bravo meccanico. Puoi aiutarmi? Ho quasi distrutto la frizione e se lo scoprono stavolta mi mandano a piedi.»

∞ nessuno muore per sempre ∞Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora