Capitolo 25

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Gillian chiamò la madre di Irene chiedendole se fosse tutto a posto. Lei rispose che erano state bravissime e che le aveva già portate a scuole. Gill la ringraziò e si scusò ancora per 'l'imprevisto

Gillian chiamò la madre di Irene chiedendole se fosse tutto a posto. Lei rispose che erano state bravissime e che le aveva già portate a scuole. Gill la ringraziò le promise che sarebbe andata lei a prenderle a scuola, ma la donna le disse che non c'era bisogno e di non preoccuparsi. Gillian sorrise e la ringraziò.

Quel giorno non aveva turni. Così decise che sarebbe andata in giro. Prese le chiavi, la borsa ed uscì.

***

Uno. Uno-due. Uno. Uno-due.

Gillian buttò l'aria fuori, mentre colpiva più forte il sacco. Aveva bisogno di sfogarsi e l'unico posto che le era venuto in mente era la palestra in cui andava con Luca. Si era cambiata e aveva iniziato a prendere a pugni quel sacco, immaginando al posto suo vari volti. Mauro. Rob, che le aveva mentito. Un volto ghignante a rappresentare la mafia. Ad ogni nuovo volto Gillian aumentava il ritmo. Voleva sfondare quello stupido sacco. Voleva rompere tutto. Così come era rotta lei. Voleva essere così stanca da non riuscire nemmeno più a parlare. Nemmeno più a pensare. Voleva solo perdere i sensi. Di sicuro quello era un modo molto più salutare che non come aveva fatto il giorno prima. Come aveva potuto ubriacarsi? Non si era mai lasciata andare nemmeno ad un bicchiere di vino a Capodanno, cosa diavolo le era saltato in mente?? Colpì con più forza il sacco e sentì il pugno dolorante. Non si fermò.

Uno. Uno-due.

Sentiva le braccia stanche e intorpidite. I muscoli gemevano non abituati a quello sforzo. Ma a Gillian non importava.

Uno. Uno-due.

Più avrebbe faticato. Più sarebbe stata stanca. Più forse sarebbe riuscita a non pensare a tutto quello per qualche ora.

Uno. Uno-due. Uno. Uno-due.

Si fermò solo quando incominciò a non stare più in piedi. Crollò in ginocchio sfinita. Si accasciò al suolo. Inspirò. Ed espirò. Più volte. Fino a quando il respiro non tornò regolare. Si alzò. Si fece una doccia. Guardò l'ora. Era ancora presto. Aveva tutto il tempo. Si caricò la borsa in spalla e uscì.

Era ferma ad un semaforo quando il suo cellulare iniziò a squillare. Lesse il nome. 'Mauro'. Spense il telefono e continuò a guidare. Quel giorno non c'era per nessuno.

Per fortuna non c'era molto traffico e lei arrivò relativamente in fretta al Castello di Rivoli. Aveva letto sul giornale che ci sarebbero state le mostre su De Chirico e sulla metamorfosi, che lei voleva assolutamente vedere. Amava l'arte. Aveva sempre amato studiare le ricerche, le indagini e le teorie che gli artisti svolgevano per rendere le loro opere uniche. Durature. Per combattere l'oblio. Per lasciare un segno. Era un qualcosa di insito negli uomini. Il voler lasciare un segno. Il voler combattere quell'oblio che, alla fine, arriva per tutti. Passò tutto il resto della mattinata tra quelle mura e saltò anche il pranzo, troppo presa dalle mostre. Uscì da lì che erano le 14 passate. Si rese conto di star morendo di fame. Così si incamminò tra le vie, in cerca di un bar, una pizzeria, o qualsiasi posto che vendesse qualcosa da mangiare. 

***

Diciotto. Mauro l'aveva chiamata diciotto volte. Niente. Staccato. Si passò le mani sul viso. Le aveva mentito. E ora lei era convinta che lui fosse rimasto con lei solo per una promessa.

Mauro sospirò. Per quel giorno aveva finito di lavorare. Si incamminò verso casa. Faceva caldo. Si pentì di essersi portato il giubbotto di pelle. Lo tenne sottobraccio. Intanto camminava guardando le persone. Gli era sempre piaciuto immaginare cosa avessero le persone. Provare a capire perché si comportavano in un certo modo. Notare che erano preoccupate o felici e immaginare la storia che c'era dietro. Lo faceva sentire parte di qualcosa di più grande. A volte gli capitava di incrociare lo sguardo con alcune persone e allora lì potevano nascere diverse reazioni. Un timido sorriso. Un saluto di cortesia. Indifferenza.

Pensò a tutto quello che era successo che lo aveva fatto arrivare lì. Pensò alla sua famiglia. Al suo problema. Alle sue scelte.

Le sue scelte, quelle che lo avevano condotto in quel mucchio di casini che era la sua vita e sempre loro lo avevano costretto ad aiutare certe persone per salvare la sua famiglia. E se ne vergognava. Tantissimo. A volte non aveva nemmeno il coraggio di guardarsi allo specchio. A volte voleva solo tornare indietro. Cancellare tutto. Ed essere ancora una famiglia felice.

Si tirò la porta dietro. Finalmente a casa. L'ora di pranzo era passata da un pezzo. Ma non aveva fame. Accese la radio e mise il suo CD preferito. We were born to run. Bruce Springsteen. Chiuse gli occhi e si fece cullare dalla musica.




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