Capitolo 22

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Gillian tornò a casa senza quasi frenare. Non sapeva cosa pensare. Perché non le aveva detto la verità? Era tutta una finzione? I mafiosi volevano tenerla sott'occhio? Magari ora che lei era a conoscenza di tutto avrebbero ucciso anche lei. Non importava. Lei non si sarebbe fatta abbattere. Non così facilmente. Non senza lottare. Sì. Avrebbe lottato. Per lei. Per Alice. Per Michelangelo. E per tutti quelli che le volevano bene. Ora più che mai voleva prendere quei bastardi.

***

Mauro sospirò. Bel casino hai combinato! Si disse. Non sapeva cosa fare. Aveva fallito. Non aveva mantenuto la promessa. Non era riuscito a fare niente. Aveva fallito. Non era nessuno, lui. Sapeva solo fare promesse vuote. Lui era vuoto. Si passò le mani sulla faccia. Cosa poteva fare ora? Gli veniva in mente solo una cosa ma non aveva la forza di farlo. Magari tra un paio di giorni, se la situazione non fosse migliorata. Si incamminò verso casa. Era solo. Di nuovo. Loro lo avrebbero trovato di nuovo. Come un circolo vizioso. Lo avrebbero trovato e gli avrebbero detto di prendersi la colpa del suo omicidio. Ormai lei sapeva troppe cose.

Iniziò ad avere difficoltà a respirare. La vista gli si sfocò. Un attacco di panico. Sentì le gambe tremargli e cedere. Si trovò in ginocchio. In una strada deserta. In un vicolo. Forse era quello ciò che aveva provato lui. Tristezza. Dolore. E tanta, davvero troppa paura. L'attacco non passava. Anzi. Peggiorava. Continuava a tremare. A vedere tutto girare. Ad avere paura. Fece l'unica cosa che gli venne in mente. Ciò che faceva sempre in queste situazioni. Prese il cellulare con mani inferme. La chiamata partì.

– Pronto?

La sua voce lo calmò quel tanto che bastava per poter parlare.

– Attacco...di...pa-nico...– sussurrò – Porta...Palazzo. – non riuscì a dire altro. Chiuse gli occhi cercando di respirare profondamente come gli avevano insegnato. E aspettò.

Non sapeva dire quanto tempo fosse passato. Se un'ora o due minuti, quando due mani che conosceva bene gli presero le sue e le scostarono dal viso.

– Ssst. Va tutto bene. – sussurrò, abbracciandolo. Mauro si aggrappò forte a lei.

– Va tutto bene ci sono io.

Mauro annuì.

– Ci sono io. – ripeté, stringendolo più forte.

Rimasero in quella posizione fino a che il tremito di Mauro tornò nei parametri normali. Allora lei lo aiutò ad alzarsi e lo sistemò sul sedile. Per tutto il tragitto non fece altro che lanciargli occhiate preoccupate. Non si sarebbe mai aspettata che la chiamasse. Pensava avessero chiuso.

– Grazie, Mel. – bisbigliò.

– Non mi chiamare 'Mel'. È da quando ho 12 anni che non voglio più essere chiamata così. – disse Rosalie. Mauro sorrise. Non si ricordava nemmeno più quale fosse il cartone animato che l'aveva spinta a quel soprannome. Melody. Che poi si era trasformato in 'Mel'.

– Perché mi hai chiamato? Sono cinque anni che non ti fai sentire. Dimmi: perché diavolo mi hai chiamato?! Pensi che ti sia sempre tutto dovuto? Che tutti debbano correre appena chiami?! – sbraitò lei.

– Ma sei venuta. Avresti potuto fare finta di niente.

Lei lo guardò con rabbia.

– Lo sai che non ti avrei mai lasciato. Ma non puoi sparire per anni senza farti più sentire.

– Mi dispiace.

– Cosa hai detto? – domandò stupita. In 26 anni non lo aveva mai sentito scusarsi.

– Ho detto scusa, mi dispiace, Rosie, davvero. È solo che...– inspirò –Avevo paura. È colpa mia se è successo tutto questo. Mi sentivo in colpa.

IL SAPORE DEI COLORIDove le storie prendono vita. Scoprilo ora