Prologo

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Era una calda notte di metà luglio.
Se il cielo non fosse stato coperto, la luna piena avrebbe rischiarato con la sua fredda e argentea luce il bosco di conifere e le stelle avrebbero fatto capolino oltre le cime dei pini, ma, quel giorno, un imponente fronte temporalesco era giunto dall'Atlantico, sospinto dai forti venti oceanici.
Cupe e plumbee nubi, gravide di pioggia, si erano ammassate sulle vette dei Twelve Bens già dal primo pomeriggio, e l'aria si era fatta carica di elettricità statica.
Il cielo aveva presto assunto una tonalità livida, giallastra, quasi malsana, e la luce del sole era stata oscurata dal bagliore dei lampi, che si susseguivano via via più frequentemente.
Verso le nove di sera, vi era stata un'improvvisa quiete: il cielo si era fatto silente e il vento aveva smesso di sferzare gli alti steli d'erba; il mare si era calmato, divenendo improvvisamente piatto e liscio come una tavola scura, e le folgori avevano cessato di illuminare a giorno le alte scogliere, che si erigevano irte e imponenti sulla baia.
Poi, il cielo si era squarciato sopra la contea di Galway.
Sull'Irlanda si era riversata un'ingente quantità di pioggia, che aveva allagato i campi e inzuppato le bestie; le strade erano diventate torrenti e i torrenti erano diventati piccoli fiumi.
L'acquazzone aveva devastato le campagne e annegato i raccolti per una mezz'ora, poi si era trasformato in un'innocente pioggia estiva ed infine, verso le undici di sera, si era estinto.
Poco dopo, una fitta e densa nebbia era strisciata fra le vie dei paesi, fra gli steli dei campi e fra i tronchi del bosco, avvolgendo l'intera regione in un bozzolo di candida e silenziosa quiete.
In quella calda notte di metà luglio, la contea di Galway dormiva di un profondo sonno, stremata dal passato temporale.
Solo quattro ragazzi, vestiti in nere tenute di pelle, non riposavano nei rispettivi letti, ma correvano agili fra gli alberi alle pendici del monte Bengower, la cima più alta della catena dei Twelve Bens.
Il gruppetto si muoveva compatto, percorrendo una strada invisibile ad occhio umano, che però, ormai, tutti e quattro conoscevano, tante erano le volte che l'avevano percorsa.
In testa vi era l'unica ragazza del gruppo, un'alta e longilinea fanciulla dai pallidissimi capelli biondi, che si muoveva con tale leggiadria che pareva fluttuasse nello spesso strato di nebbia.
La seguivano a poca distanza tre giovani uomini: il primo, grosso come un armadio in legno di quercia, camminava facendo roteare nel palmo una corta daga; il secondo, dai nobili lineamenti del volto, avanzava con passo baldanzoso, volgendo continuamente lo sguardo al cielo nel vano tentativo di individuare la pallida e argentea luna fare capolino oltre le nubi; il terzo, invece, si muoveva in modo ferino, osservando con tacita meraviglia le gocce di pioggia che luccicavano sugli aghi di pino e che, cadendo, venivano inghiottite dalla nebbia.
«Blaine, ho saputo che stai pensando di fare da Strega Guida a tua nipote, quest'anno» esordì a un certo punto il primo ragazzo, sollevando gli occhi dalla lucida lama della sua daga.
«Oh, sì» confermò la ragazza, voltando appena il viso verso di lui, «Lysagh me l'ha chiesto l'altro giorno... ma non so ancora cosa le risponderò» aggiunse, pensierosa.
«Tu cosa ne dici, Áengus?» domandò quindi, interpellando il secondo ragazzo.
Egli abbassò lo sguardo - smettendo momentaneamente di cercare la luna - e schiuse le belle labbra in un sorrisetto strafottente: «Dico che è una bella idea... sempre che tua nipote non sia idiota come il mio Protetto» esclamò, volgendosi verso il terzo ragazzo e rifilandogli una poderosa pacca sulle spalle.
Quest'ultimo sollevò gli occhi di mercurio su di lui: «Sei uno stronzo» bofonchiò, «Ti ricordo che sei stato tu a proporti come mia Strega Guida» aggiunse, sogghignando.
«L'ho fatto solo perché nessun altro voleva accollarsi un tipetto scontroso, indisciplinato e ingestibile come te» lo rimbeccò quindi Áengus, strizzandogli l'occhio con affetto fraterno.
Il terzo ragazzo sbuffò scocciato, sollevando con il suo respiro una ciocca di corti capelli biondi, e rifilò uno scappellotto alla sua Strega Guida.
«Beh, Áengus, devo ammettere che hai fatto un ottimo lavoro con l'idiota qui presente» commentò a quel punto Blaine, facendo una breve inversione di marcia per raggiungere l'ultimo ragazzo della fila. Gli scompigliò i mossi capelli biondi e, fissandolo in quei suoi occhi così grigi e così belli, aggiunse, con affetto: «Confidenzialmente, rimani il mio idiota preferito».
«Grazie, Blaine, ne sono onorato» ghignò questi, accennando un inchino in direzione della ragazza che, come sapeva da un paio di mesi, era davvero innamorata di lui.
«E tu?» lo interpellò ancora Blaine, «Nessuna ragazzina ti ha ancora chiesto di farle da Strega Guida?» indagò, con un pizzico di gelosia nella voce.
Il ragazzo alzò i grigi occhi al cielo: «Oh, in realtà ho ricevuto più di una richiesta... ma, come ben sai, mi sono visto costretto a declinarle tutte. Non sono molto... stabile» borbottò, lanciando quindi un'occhiataccia ad Áengus, il quale gli ricordava in ogni momento quanto si dovesse impegnare - più di tutti gli altri - per contenere i suoi poteri... esplosivi.
Áengus si lasciò andare in una gioviale risata, ma il ragazzo biondo non lo seguì: la sua attenzione era stata catturata da una sagoma longilinea che, rapida e silenziosa come un fantasma, si stava muovendo fra i tronchi alla sua sinistra.
«Cosa diavolo...» mormorò, estraendo in modo fulmineo la propria daga e mettendosi in posizione di difesa.
Una risata cristallina e malefica strisciò come la nebbia fra le fronde degli alberi, facendogli rizzare i capelli sulla testa.
La sagoma oscura scivolò nel sottobosco come un'ombra e, prima che il ragazzo la potesse anche solo individuare, essa gli fu addosso.
Non seppe mai cosa lo avesse assalito o perché lo avesse fatto.
Il dolore esplose in ogni singola cellula del suo corpo, talmente acuto e profondo da ridurlo agonizzante in ginocchio. L'urlo che lasciò le sue labbra quando il suo organismo iniziò a bruciare non fu nulla di umano e, quando sulle sue iridi di mercurio calò un velo nero come la più buia delle notti, egli tirò un sospiro di sollievo.
La perdita di coscienza lo avrebbe strappato a quella tortura, quindi lui accolse con immensa gratitudine l'oblio e si lasciò andare fra le sue confortevoli braccia.

***

Quando rinvenne, un pallido sole faceva capolino fra le fronde dei pini.
Il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre, stordito, cercando di abituarsi alla debole luce solare e, contemporaneamente, di ricordarsi cosa diavolo fosse successo la notte precedente.
Le immagini che affollavano impazzite la sua mente si accavallavano l'una sull'altra, creando un folle mosaico privo di senso.
Si mise carponi e, non appena riacquistò il senso del gusto, un nauseabondo sapore di ferro e ruggine gli esplose in bocca.
Sputò sangue a terra e, soffocando i conati di vomito, cercò alla bell'e meglio di pulirsi le labbra.
Quando però sollevò la mano, si accorse che le sue dita erano coperte di sangue ormai rappreso, secco sulla sua pelle altrimenti candida e immacolata come la neve.
Confuso, prestò più attenzione al proprio corpo: passato il momento di sbandamento iniziale, iniziò a provare un dolore pulsante sul lato sinistro del volto, così si portò le dita tremanti alla tempia.
Ivi toccò i lembi frastagliati di una profonda ferita che, come poté constatare dopo un sommario controllo, si estendeva dalla tempia alla clavicola.
Prendendo poi un profondo respiro per contrastare la nausea che continuava ad assalirlo ad ondate, si domandò distrattamente, in quest'ordine, come mai ci fosse così tanto sangue sui suoi abiti, che ne parevano quasi inzuppati, e come potesse essere ancora vivo, dopo averne versato una così ingente quantità.
Si mise quindi a sedere e, guardandosi intorno con sguardo vacuo, cercò i suoi compagni.
«Blaine?» domandò con voce incredibilmente roca.
Le sue corde vocali gemettero e si infiammarono ulteriormente, ma egli proseguì: «Daigh?».
Non udendo risposta alcuna, il suo cuore prese a battere più rapidamente.
«Áengus? Áengus, dove sei? Dove siete tutti?» continuò, con voce via via più incrinata.
L'ansia iniziò a farsi strada nel suo petto e i suoi occhi, solitamente freddi come l'oceano d'inverno, si inumidirono di un caldo velo di lacrime.
Si sfregò con frenesia le mani, cercando di scrostarne il sangue rappreso, strofinandole con le unghie fino a scorticarle. Lo fece ancora e ancora, finché la pelle non gli rimase sotto le unghie, cercando in qualche modo di mettere a tacere la voce che gli urlava che qualcosa di orribile era successo, in quel bosco.
«Áengus?» tentò di nuovo, «Áengus, non... non è divertente, amico» balbettò.
Deglutì a fatica il nodo che gli aveva stretto la gola in una morsa di acciaio, poi, prendendo nuovamente un paio di respiri, chiamò ancora: «Blaine! Daigh! Áengus! Dove siete? Dove diavolo siete?!», ma le sue parole si persero nel vento di quel tiepido mattino di metà estate.
Nessuno gli rispose mai.

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