Trentottesimo

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E dalle parole di una canzone si trasformarono in parole di una lettera. Ashton non potè farne a meno.

Se n'era accorto quando il testo non sembrò più una canzone, bensì un discorso.

Ma era liberatorio; finalmente poteva buttare su carta tutto ciò che stava provando per Calum, quanto fosse innamorato, oramai, del moro, di come lo avesse aiutato ad aprire gli occhi, di come lo avesse aiutato anche se non se sentiva di non meritarselo, di come gli piaceva la sua cinica e sarcastica compagnia, di come apprezzasse la pazienta infinita di stargli dietro, di come non avesse mai perso la speranza con lui.

Una lettera, ma non di quelle romantiche o sdolcinate: era una di quelle che narravano i fatti così come stavano, senza fronzoli stupidi. Solo una semplice valvola di sfogo, un modo per riodinare i propri pensieri, un modo per scaricare tutta la pressione di essere il meno palese possibile intorno a Calum, anche se sapeva che non era mai stato il suo forte.

E così, nella sua camera illuminata solo da fioca luce della lampada mezza rotta della scrivania dove stata scrivendo, si perse a pensare ad un impossibile futuro con Calum al suo fianco, che lo baciava, che lo accarezzava, che voleva stare con lui nella maniera più casta possibile, che lo ricambiava, anche solo un po', anche quel poco che bastava per renderlo felice qualche giorno, una settimana al massimo, giusto per dire di avercela fatta, di non essere rifiutato completamente e custodire quei momenti come oro.

Sapeva che non avrebbe dimenticato Calum tanto facilmente, che non sarebbe stata solo una cotta passeggera, ma sarebbe stata un parte importante nella sua piccola vita da piccolo gay represso; ma avrebbe fatto calpesatre il suo cuore a Calum più che volentieri se questo voleva dire non rinunciare alla sua affascinante compagnia.

Ormai dipendeva da Calum, non poteva farci niente e non avrebbe cambiato tutto ciò.

***

Dopo quelle che sembravano settimane passate a non fare un minimo di attività fisica, il professore si degnò di portarli, invece che in palestra, al campo sul retro della scuola.

Così Calum e Ashton, in rapporti sicuramente migliori dell'ultima volta che avevano dovuto fare ginnastica assieme, si ritrovarono a fare la strada nel freddo di dicembre l'uno accanto all'altro, ridendo per ciò che aveva detto Calum:"Se continui a portarmi quella deliziosa brioche ogni mattina, al campo ci arriverò rotolando" constatò, accarezzandosi la pancia come una donna incinta.

Ashton non potè fare a meno che ridere, contagiando anche il più piccolo, che si lasciò andare al momento di spensieratezza.

Quando si furono calmati, fu il turno di Ashton di parlare:"Sai cosa faremo oggi?" chiese svogliato, non volendo davvero stare lì al freddo e seguire gli ordini di quell'incompetente dell'insegnante.

"Giocamo a calcio" rispose sbito il moro, mentre Ashton notò la piccola scintilla di emozione nei suoi occhi.

"Ti piace il calcio? Giochi?" chiese curioso il riccio, mentre il prof parlava e Calum cercava inutilmente di ascoltare; quando capì che quelle informazioni non erano importanti, si girò verso Ashton:"Sai, tutta quella tensione che accumoli durante il giorno? Bene, ho scoperto che se la sfogo nel calcio, sono anche abbastanza bravo. Ci gioco da quando ero alle elementari, purtroppo ho smesso qualche anno fa, non riuscendo tante volte a conciliare lo sport e la scuola" spiegò.

Poi resosi conto di ciò che aveva condiviso, guardò Ashton stranito, che lo guardava a sua volta meravigliato.

Calum scosse la testa con un sorriso,  girandosi a guardare il professore:"Te l'ho detto che i tuoi monologhi mi hanno influenzato"

Ashton sorrise, circondando le spalle di Calum con un braccio, mentre il moro alzava gli occhi al cielo e arrosiva un po', sperando di poter dare la colpa la freddo. Incrociò le braccia la petto, mentre Ashton gli rispondeva:"Allora abbiamo un piccolo giorcatore provetto. Io sto in coppia con te, sono negato"

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