Capitolo ottantasette

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Destiny

Sono almeno due le ore che ho trascorso seduta su una delle sedie della centrale di polizia in attesa di ricevere ulteriori informazioni sul rapimento dei miei figli e sul loro adescatore. Nessuno ha saputo dirmi come diavolo sia stato possibile che l'uomo che ha sequestrato i miei figli fosse a piede libero o come sia riuscito a farla franca senza venire intralciato o scoperto.
Nessuno ha saputo dirmi nulla se non di stare calma e di lasciare ai poliziotti il tempo di indagare e fare il loro lavoro. «Dove stai andando?» Sento Chase e Kate chiamarmi quando, stanca di stare con le mani in mano, mi alzo dalla seggiola e mi dirigo nella stanza in cui ho visto entrare Ryan e gli agenti che hanno assegnato al nostro caso. Abbasso la maniglia con forza, causando l'interruzione dell'interrogatorio a cui è stata nuovamente sottoposta l'insegnante. Ryan è seduto accanto a lei. Si volta verso di me quando spalanco la porta e l'espressione seria che ha stampata in viso si addolcisce. Si alza ed io sposto lo sguardo su i due uomini in uniforme che mi guardano sia comprensivi che leggermente stanchi delle mie continue intrusioni. «Signora Smith...» inizia l'agente con meno anni di esperienza. Lo fulmino con lo sguardo, ponendo fine al suo sproloquio prima ancora che inizi. «Sono passate due ore. Possibile non abbiate ancora una strada da seguire?» «Des.» mormora Ryan, posizionandomisi di fronte. Mi scosto io quando non mostra cenni di volersi togliere. «Abbiamo mandato una serie di pattuglie a setacciare la zona. Appena sapremo qualcosa glielo faremo sapere. È inutile che venga a disturbare il nostro lavoro ogni cinque minuti. Aspetti me o uno dei nostri uomini per ulteriori novità.» mi liquida, concentrandosi su mio marito. Ryan indurisce la mascella, ma prima che possa rispondere all'uomo per mio conto lo faccio da sola. «Disturbare il vostro lavoro? In cosa consiste esattamente? Fare le stesse quattro identiche domande agli interrogati ed aspettare che succeda qualcosa?» L'uomo mi guarda con sufficienza. «La invito cortesemente ad uscire e a non sminuire o interferire ulteriormente con il nostro lavoro.» Inarco un sopracciglio. Mi invita ad uscire? «Andiamo, Des.» Bisbiglia Ryan, prendendomi per mano. Sappiamo entrambi che non otterrò niente se resto e confinuo a pungolarli, ma di andarmene non ne ho la minima intenzione così sfilo la mano dalla sua e muovo un passo verso l'agente. «Lei hai figli, agente Stilinski?» Leggo il nome scritto sull'etichetta che porta al petto. L'uomo scuote la testa. «Allora non ha la minima idea di quanto in questo momento io stia soffrendo e non possa fare niente per stare meglio.» L'uomo mi guarda con un accenno di senso di colpa. «Non voglio dirvi come fare il vostro lavoro, l'unica cosa che vi chiedo è di fare più di quanto stiate facendo. Aumentate le pattuglie, diffondete la voce, andate voi stessi ma non statevene con le mani in mano. I miei figli sono là fuori con uomo di cui l'unica cosa che sappiamo è che è pericoloso e che come ha fatto male a dei bambini in passato può benissimo riservare lo stesso trattamento ai miei figli. Capisce? Non posso semplicemente aspettare. Fate qualcosa, qualsiasi cosa sia in vostro potere. Sono solo dei bambini, non hanno fatto del male a nessuno.» Ho la voce rotta dal pianto e le lacrime che mi bagnano entrambe le guance. Ryan mi trascina fuori prima che possa ascoltare la loro risposta. «Vieni, piccola.» Intreccia la sua mano alla mia e mi conduce fuori la stanza. A causa degli occhi chiusi fatico a guardare con chiarezza dove metto i piedi. «Stanno facendo il possibile.» mi spiega, ma colgo un pizzico di incertezza nel suo tono di voce. Premo la schiena contro la parete e lo guardo. È distrutto dal dolore, ma nonostante questo cerca di essere forte per me. «E a te basta?» Posa una mano sul muro dietro di me e stringe gli occhi, sfinito. «No, Des. Certo che no, ma cos'altro possiamo fare? Non possiamo risolverla noi da soli.» «Ma neanche starcene qui buoni ad aspettare che là fuori le cose cambiano. È di Emily ed Harry che stiamo parlando, Ryan. Dei nostri figli.» Gli prendo il viso tra le mani e lui sospira. Ha la mascella rigida ed il viso contratto in un'espressione dura. «Se lo avessi davanti lo ammazzerei con le mie stesse mani.» Ryan sputa rabbia, gli occhi fissi su un punto indefinito, le vene del collo evidenti e gonfie. Gli infilo le mani tra i capelli e lui chiude gli occhi, appoggiandosi al mio petto. Cala un silenzio che nessuno dei due ha intenzione di rompere. Chiudo gli occhi e mi chiedo se riabbraccerò mai i miei figli, se rivedrò mai i sorrisi dei miei splendidi bambini e se giustizia sarà mai fatta.
Finirà mai questo calvario? Ad oggi la risposta si rivela ancora negativa.
Il telefono di Ryan squilla nella tasca posteriore dei suoi jeans, ma non sembra intenzionato a rispondere così lo faccio io al suo posto. Il numero di Meghan lampeggia sul display. Ha almeno altre cinque chiamate perse a cui a non ha risposto. Mi chiedo cosa stia succedendo. «Pronto?» «Des, tesoro. Tuo marito è lì con te?» Una voce grottesca mi accoglie dall'altro capo. Guardo Ryan che ha ancora la testa china nell'incavo del mio collo. «No, ma di qualsiasi cosa si tratti puoi lasciare detto a me.» «Digli che se non porta il suo culo qui nell'arco di dieci minuti può considerarsi ufficialmente fuori dalla squadra.» Il coach ha un tono di voce talmente alto che sente anche Ryan. Mi chiede di passargli il telefono così glielo porgo. Mi guarda fisso quando dice che nei prossimi giorni passerà a ritirare le sue cose e non metterà più piede in quella palestra. Sgrano gli occhi e lui annuisce. Il suo coach impreca e Ryan lo lascia sfogare, alzando gli occhi al cielo. La chiamata si conclude poco dopo con un coach più incazzato di quando ha chiamato e un Ryan indifferente come non l'ho mai visto prima. «Cos'è successo?» domando con voce flebile. Non può aver lasciato seriamente il basket. È la sua vita prima di essere la sua passione. «Le nostre priorità non coincidevano. » spiega brevemente, bloccando il telefono. Non può essere solo questo. Cos'altro può renderlo felice quanto il basket? «Tu ami il basket, Ryan. Non puoi prendere e lasciarlo da un momento all'altro. Non ha senso.» «Posso farlo, se amo più te. » Capisco allora di essere io la causa per cui si è ritirato. «Ryan...» «Ho sempre detto loro che saresti stata al primo posto qualunque fosse stata la situazione e qualunque fosse stata la partita da giocare. Quando questo ha iniziato a non stargli bene, ha stufato anche me così ho preso tutto ed ho mollato.» Poggio la fronte contro la sua. «Ti amo, lo sai, ma non puoi lasciare che ogni cosa ruoti intorno a me.» Protesta così gli poso due dita sulle labbra. «Giocare in una delle squadre di basket più famose di sempre è stato il tuo sogno sin da quando ero bambino.» «Solo perché non ti conoscevo ancora altrimenti sarebbe stato sposarti.» Sorride e a me viene naturale ricambiare.
«Sei nato per giocare a basket, tesoro. Metti te stesso in qualsiasi cosa tu faccia ma in campo anche l'anima. La palestra è il tuo habitat naturale tanto quanto lo è per me l'ospedale. E come io non riesco a stargli lontano per più di due giorni lo stesso succede a te con il basket.» Ryan sembra riflettere sulle mie parole. «Sentirei come di dare più importanza al basket che a te se tornassi indietro.» «Cosa credi ti sto chiedendo?» Gli passo una mano tra i capelli. «Voglio vederti felice, Ryan.» «Lo sono con te.» «Lo saresti ancora di più se continuassi a giocare.» È titubante, combattuto tra le due cose che ama più al mondo. «Chiama il coach e digli che fai nuovamente parte della squadra. Un capitano non abbandona mai la sua nave.» Un piccolo sorriso si fa strada sulle sue labbra piene. «Ti amo. Risolvo al volo questa e poi pensiamo ai bambini.» Mi bacia a stampo e poi si allontana per fare la chiamata. Estraggo il mio telefono dalla tasca quando la notifica di un messaggio illumina il display. Il mittente è sconosciuto. Apro il messaggio e sento la gola seccarsi quando allegato al testo c'è una foto.
La apro e sento i battiti cardiaci aumentare. Emily ed Harry sorridono all'inquadratura della telecamera con le facce sporche di gelato. Stanno bene. A quel pensiero mi sento mancare l'aria per la contentezza. L'ilarità viene meno quando mi concentro sul testo che mi è stato inviato assieme alla foto.
Come puoi vedere non ho torto loro neanche un capello. Non ancora, almeno. Deglutisco. Non averlo ancora fatto non significa non poterlo fare in futuro. Se li rivuoi indietro incontriamoci dove tutto è iniziato. Mi ritorna alla mente il capannone in cui gestiva i suoi affari e rendeva la vita di Dawson un inferno. E porta Dawson con te. Cosa vuole fare? Uno scambio? Se vieni con la polizia o ne parli con qualcuno puoi dire addio ai tuoi bambini. Sai di cosa sono capace. L'ultimo messaggio mi fa raggelare il sangue nelle vene. Alzo lo sguardo e vedo Ryan camminare avanti ed indietro per il corridoio poliziesco. Vorrei parlargliene, mostrargli i messaggi che mi sono appena arrivati, ma se lo facessi mi impedirebbe di andare e manderebbe avanti la polizia. E non posso rischiare che qualcosa vada storto. Devo fare tutto da solan o questa sarà l'ultima volta che vedrò i miei figli.

Perché proprio lei? ? 2.0Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora