❃ 19 || Incubi

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Hannah's P.O.V

Sono sola.

Continuo a guardarmi intorno ma non vedo nessuno, cerco Noah...urlo il suo nome ma mio padre, ormai apparso dinanzi a me, mi impedisce di farmi sentire da lui. Mi trascina con forza insieme a se e le sue mani sono ovunque, rudi e invadenti.

Piango a dirotto, urlando di lasciarmi stare per l'ennesima volta e finalmente apro gli occhi.

Un incubo.

Era solo un altro dei miei soliti incubi.

Solo un incubo.

Mi liberai dalle coperte stropicciate che mi intrappolavano in una morsa asfissiante e avevo il respiro completamente impazzito. Ero madida, il sudore freddo mi impregnava il corpo gelandomi persino le ossa e cercai di riprendere fiato. Chiusi gli occhi e stabilizzai il respiro, il cuore martellava impazzito, addolorato e il terrore prese pian piano a scivolarmi via di dosso. Mi girai di scatto per afferrare il cellulare, lessi l'orario, erano le tre di notte, ero esausta. Bevvi un sorso d'acqua, mi guardai attorno irrequieta ed ero sola nella mia stanza, come sempre.

Cercai di accomodarmi nuovamente fra le lenzuola, mi scollai dal viso i capelli appicciati sulla pelle bagnata e provai a calmarmi, fra poche ore avrei dovuto svegliarmi per andare a scuola e avevo bisogno di riposare.

Mi rigirai così tante volte nel letto prima di addormentarmi, che dalle finestre chiuse si udirono cinguettii lontani e qualche spiraglio di luce fioca.

La mattina seguente al primo suono della sveglia sbarrai gli occhi, mi sentivo uno straccio. Mi sentivo come se non avessi dormito affatto, ero stanchissima e completamente scombussolata. La sveglia tornò a suonare ed io ero già seduta sul letto, la spensi di malavoglia e mi tirai su per andare ad infilarmi sotto la doccia.

Odiavo ricordare, odiavo quegli incubi.
Quei dannati incubi.

Quando uscii di casa tirai un sospiro di sollievo. L'aria era calma, lievemente gelida, ma io amavo andarmene di lì e i nervi della mia schiena andarono via via rilassandosi. Camminai con calma verso la fermata del pullman, non c'era nessuno in strada a quell'ora, solo qualche signora che incappucciata passava le mattinate a correre lungo le strade e mi accomodai sulla panchina. Mi lasciai pervadere dalla tranquillità dell'aria, il fruscio leggero del vento che smuoveva le foglie secche posate ai piedi degli alberi spogli, i raggi di sole che filtravano dalle nuvole imponenti e davano quel poco di sollievo sulla pelle.

In quel periodo dell'anno era così gradevole essere sfiorati dal sole, non era bollente né fastidioso come nei giorni d'estate e primavera.

Udii un rombo, il rumore di una moto farsi sempre più vicino e quando sollevai il viso mi ritrovai gli occhi di Noah sbucare dalla visiera di un casco integrale. Immaginai il suo sorriso e fu un toccasana per il mio umore.

«Ei buongiorno...» esalò vedendomi seduta sulla panchina in attesa del mio pullman e mi tirai su abbozzando un sorriso.

«Buongiorno» dissi calma.

«Dai sali che ti porto io a scuola» non fece troppi giri di parole quella mattina e osservai il casco che teneva appeso sotto il manubrio. Mi domandai se non fosse passato di qui di proposito e senza farmi troppi problemi lo afferrai.

Montai in sella alla moto, prima di partire mi voltai verso casa, distava centinaia di metri da qui, volevo assicurarmi che lui non fosse uscito, non lo faceva mai e non notai nulla.

Senza attendere altro Noah sfrecciò lungo la strada deserta e casa mia rimase un punto indistinto, fermo alle nostre spalle, sempre più lontano da noi.

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