❃ 22 || Due innamorati

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Noah's P.O.V

Passammo quaranta minuti di silenzio, quaranta minuti che distrussero anche l'ultimo briciolo di forza resiliente dentro di me, quella forza che ci stavo mettendo per riuscire a sopportare la malinconia che trasmetteva, senza impazzire.

L'istinto di andare a casa sua e chiedere direttamente a suo padre cosa le avesse fatto di tanto grave per renderla così era forte, ma non avevo potuto. Le avevo promesso che l'avrei portata lontana sta notte, con me, e così avrei fatto.

Non trovai idea migliore che partire per la casa di campagna nella quale passavamo le estati migliori con nostro padre. Era un luogo estremamente importante per me, non c'ero mai tornato da solo e mai sarei venuto qui con una ragazza, a meno che questa non fosse stata così tanto importante per me.

Lei era il compromesso perfetto per farmi tornare fra quelle mura.

Un semplice chalet in legno costruito fra colline e frutteti nei dintorni di Seattle, appena fuori la città. I miei ricordi più belli erano sotto quel tetto, fra quei magnifici alberi ormai sfioriti dalla stagione, intrappolati in un passato che non sarebbe tornato mai più. Era prezioso per me. Una casa così accogliente e calorosa, sarebbe potuta rimanere chiusa per decenni e farti provare ugualmente quell'estremo senso di familiarità ad ogni ritorno.

La notte era calata da un pezzo, non c'erano neppure molti lampioni ad illuminare la strada che stavamo percorrendo solo noi. Lei non poteva intravederla da qui, ma ai margini della collina, fra due maestose querce rosse, c'era la famosa amaca sulla quale mio padre mi aveva letto le poesie più belle. Passavamo ore interminabili lì, cullati dalla pace, dove al calar del sole venivi colmato dalla bellezza di tramonti mozzafiato.

«Che posto è?» chiese emettendo le prime parole da quando entrambi taciturni avevamo messo piede in macchina e la guardai, parcheggiando.

«La casa in campagna, quella in cui ci portava papà» dissi in un sussurro e si voltò a guardarmi. Mi osservò nel buio, s'erano spenti anche i fari ormai e dai vetri filtravano solo i riflessi bianchi della luna. Nonostante la profonda malinconia che portava dentro, che potevo leggere nei suoi occhi cupi, si forzò di accarezzarmi il viso e gliene fui grato.

Sapeva quanto significasse questo posto per me.

Attraversammo il prato asciutto, non c'era traccia del temporale che avevamo lasciato alle nostre spalle nel tragitto e il cielo era addirittura tappezzato di stelle qui. La vidi sollevare il viso vendendomi, si perse ad ammirare miriadi di puntini punzecchiare la notte sopra di noi e sospirai.

Avrei voluto vederla felice, ma non lo era.

Sentivo come se ci dividesse un muro, fatto di tutte le cose che non mi diceva.

Quando entrammo in casa quel posto sembrava essersi fermato nel tempo, all'ultima volta in cui eravamo stati qui tutti e cinque insieme. Era tutto dannatamente uguale a quando arrivavamo per un pranzo in campagna, solo con poca polvere in più sui mobili, molti coperti da grossi teli trasparenti.

Hannah si fermò ad osservare i quadri impolverati, avevo sempre notato l'ammirazione che aveva davanti ogni cornice, probabilmente amava osservare i ricordi impressi nelle foto. La lasciai familiarizzare con il posto e ne approfittai per dare una pulita, tirare fuori dall'armadio sigillato coperte pulite e raccattare della legna per accendere il camino. L'aria era rigida, passare la notte senza fuoco non sarebbe stato gradevole. Portai anche dei grossi cuscini davanti il salotto, c'era un enorme tappeto ricamato davanti il focolare, li lasciai lì e quando la legna scricchiolava bollente tornai da lei.

«Ti senti un po' meglio qui con me?» chiesi rompendo il silenzio che era tornato a dominare fra di noi e si avvicinò al camino, fermo di fronte a lei la guardavo rammaricato, mentre metà del viso le si illuminava con il riflesso del fuoco. Annuì, per poi abbassare nuovamente lo sguardo ai nostri piedi e sospirai.

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