Prologo

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Londra è Londra. Lo è sempre stata e forse lo sarà sempre.
Un intricato dedalo di vie e vicoli, ammantati per la maggior parte dell'anno dalla nebbia o dalla brina.
Londra è sempre stata Londra, con i suoi lampioni velati dalla caligine, scenario onirico e d'incubo, a seconda di dove cada l'occhio se sulle strade intrise di miseria, o sulle carreggiate lastricate di marmo rigato dalla nobiltà della capitale.
Londra è sempre Londra, miseria e opulenza. Divisiva, bianca o nera.

Anche quella notte l'atmosfera era teatro di un tempo indolente: freddo, uggioso e fosco.
Quando la carrozza imboccò le strade di Mayfair i cavalli cambiarono la loro andatura, lasciando che l'eco ovattato degli zoccoli sul selciato permettesse alla donna di tornare in sé, ricordandosi di dove realmente fosse.
Sospirò, mentre il sorriso che poco prima le illuminava il volto si spense nell'osservare il familiare quartiere pulito e ben illuminato, in netto contrasto con quello da cui proveniva.
Occhi color smeraldo osservarono quel mondo esterno come se lo vedessero per la prima volta, attraverso un vetro rigato da rivoli di pioggia, con immagini distorte e deformate dalla lieve condensa che appannava i vetri della vettura.
Si sentiva così anche lei, confusa e travolta nel susseguirsi di eventi inaspettati grazie ai quali si trovava in quella situazione ancora difficile da razionalizzare.
La vettura rallentò di fronte ad una cancellata bianca, apertasi lentamente al passaggio dei due bai, incedenti a piccolo trotto lungo il viale principale della magnifica magione, immersa nella più totale oscurità.
Uno dei domestici, opportunamente in livrea nera uscì trafelato dal portone con passo svelto, mettendosi immediatamente a disposizione della donna pronta a scendere dalla carrozza fermatasi nel piazzale.
Stancamente rivolse all'uomo un'occhiata, posando la mano sulla sua e apprestandosi così a scendere senza difficoltà l'unico gradino della vettura.
Era sempre tutto ripetitivo, si rese conto; ogni persona agiva come una pedina in una partita a scacchi, seguendo mosse ben definite e senza mai uscire dal suo ruolo.
Lei, tuttavia ancora si chiedeva quale fosse il suo posto su quella scacchiera.

Ignorò quel pensiero, superando il domestico guadagnando l'ingresso, varcandolo senza neppure voltarsi e cercando di smettere di litigare con i propri pensieri.
Solo poche candele illuminavano il salone d'ingresso, riflettendo un tenue bagliore sui marmi bianchi di una villa antica, che aveva vissuto certamente tempi migliori, ma almeno, rispetto all'esterno, appariva calda e accogliente.
Prese a salire la scala che portava al piano superiore, e poi lo sentì; per quanto condividessero quella dimora ormai da anni, di rado sentiva ancora la sua voce.
«Elaine» il tono dell'uomo era deciso quanto fermo, abbastanza da farla sussultare.
Non rispose, e tenendo d'occhio la stanza da cui era stata chiamata rinunciò a salire le scale per rifugiarsi nelle sue stanze,
Non rammentava neppure l'ultima volta che le avesse parlato o chiamata per nome, tanto da percepire quel richiamo quasi come estraneo.
Avvicinandosi trovò l'ingresso alla stanza appena socchiuso, quanto bastava per mostrare il lieve bagliore del fuoco del caminetto acceso.
La donna si maledisse; se solo avesse fatto più attenzione si sarebbe accorta della sua presenza e che quella dannata porta doveva restare chiusa come al solito, ma ormai la situazione era compromessa.
Lentamente si avvicinò alla soglia, varcandola. Si fermò solo dopo pochi passi, chinando il capo e restando immobile, come da etichetta.

Di fronte a lei l'ampia libreria, una sorta di studio, con mobili in legno di ciliegio riccamente decorati e intarsiati. Sulla sinistra, davanti a due poltrone ricoperte da velluto blu scuro e un basso tavolino anch'esso in legno, spiccava un grosso camino, dal quale le fiamme illuminavano tutta la stanza. In fondo alla sala un insieme di fogli, tomi e registri ordinati ed impilati sopra una scrivania di ebano nero.
L'uomo era di fronte al camino. Nella destra teneva un calice di vetro vuoto, mentre la sinistra veniva rivolta in direzione delle fiamme, come a cercare il calore che ne scaturiva.
Solo lo scoppiettio del fuoco rompeva il gelido silenzio della stanza. Null'altro.
Elaine alzò lo sguardo sulla figura longilinea di suo marito, vestito in maniera impeccabile come dovuto per un Lord del suo rango, a parte per la giacca abbandonata con cura su una delle poltroncine accanto a lui.
Ne osservò il profilo con attenzione, seguendo la linea del volto perfettamente curato, in disarmonia con neri capelli tenuti corti e dal carattere ribelle.
Aveva un aspetto crudelmente bello, come al solito, e nel rivederlo non poté sopprimere una forte sensazione di disagio, in un misto di sofferenza, d'amore e desiderio.
Lui non le diede subito attenzione, limitandosi a tenere lo sguardo davanti a sé, serio e impassibile come sempre, nonostante fosse conscio della sua presenza. Rimase in silenzio qualche istante, prima di voltarsi finalmente a guardarla.
Appena lo vide girarsi nella sua direzione, lei riabbassò il capo, prendendo a stuzzicare con le dita i guanti in pizzo bianco in palese difficoltà, troppo legata alle rigide regole impostele per fare diversamente.
Amava quello sguardo, amava il suo volto, ma ormai erano anni che non riusciva più a osservarlo senza sentirsi sopraffare dal dolore e dallo sconforto. Accadeva sempre oramai, anche se c'era stato un tempo in cui le cose erano diverse.
«Dove siete stata?» domandò lui, con voce bassa e stanca.
Elaine si morse appena le labbra continuando a tenere lo sguardo verso terra. «Sono stata invitata da Lady Whitebury questa sera, ma non mi sono accorta dell'orario. Vi chiedo perdono se ho fatto ritardo.»

La gabbia d'argentoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora