ᴍᴀɪ ᴘɪᴜ̀ ʙᴇɴᴇ

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La vita al Distretto 5 era diversa da quando ero tornata dopo gli Hunger Games.
Tutti i bambini con cui parlavo prima dei giochi, ora avevano paura di me e mi evitavano.
Solo Elvis non mi temeva: sapeva che sua madre aveva, anche lei, dovuto uccidere per sopravvivere e condurre una vita pseudo-normale.
Tutto ciò mi faceva star male. Avevo dimostrato di essere una brava persona in più occasioni, ma gli Hunger Games avevano vanificato ogni mio sforzo per far apprezzare la mia persona. Che già non godeva di una buona opinione.
Per giorni rimasi chiusa in casa per paura di dover sopportare le dicerie della gente; ogni angolo che svoltavo, vedevo i tributi che avevo ucciso e i miei alleati.
Più mi guardavo allo specchio e più volevo non essermi imbarcata in quella situazione.
Era un pensiero egoista quello.
Ma, forse, era l'unico lusso, oltre al cibo e alla fama, che potevo permettermi.
Quando fui costretta, da Theo, a uscire di casa, non potei far altro che godermi il momento, piacevole, che mi era tanto mancato.
Una leggera brezza autunnale soffiava.
Inizialmente rabbrividii, ma poi mi abituai.
Mi convinsi a fare qualche passo verso il centro del Distretto.

Tutto intorno a me era grigio. Esattamente come lo avevo lasciato.
Udii gli scuri delle finestre sbattere e le imposte chiudersi dopo ogni mio passo.
Diedi un'occhiata alla mia vecchia scuola che i bambini di ogni età avevano ricominciato a frequentare;
i miei vecchi insegnanti, che avevano in quell'istante il compito di controllare che nessuno si cacciasse nei guai, bisbigliarono tra loro e richiamarono gli alunni. Come se io volessi portarli tutti via e gettarli nel baratro della morte.
Pensai che fossi io il problema.
Avrei tanto voluto far irruzione in quel dannato edificio e gridare ai presenti che io non ero una bestia, schiava di Capitol City e dei poteri forti, ma la solita Jessie.
La Jessie a cui non importava in che condizioni versasse la sua famiglia, ma quelle dei suoi concittadini meno fortunati.
Due settimane erano bastate per far cambiare idea su di me.
Due settimane messe a confronto con quasi quattro anni di volontariato e buone azioni.
Non era giusto.
Non era affatto giusto, cazzo.
Volevo proprio capire il motivo per cui nessuno credeva più nella bontà delle persone.
Numerose domande mi riempirono la testa.
Perché Theo lo amavano tutti, indistintamente?
Perché Myriam godeva di una grande ammirazione tra tutte le donne del Distretto?
Perché i miei genitori erano un grande esempio?
Non potevo essere un problema. Io avevo vinto onestamente. Io volevo solo sopravvivere.
Ma nessuno degli abitanti del Distretto 5 si ricordava che io avevo salvato una vita innocente, ovvero quella di Ginevra Pollion?
Ero riuscita a intravederla mentre sorrideva con alcuni suoi compagni.
Si aspettavano, forse, che io mi suicidassi per permettere a Francis di tornare a casa?
Mi sarebbe piaciuto salvarlo. Veramente.
Ma fece la sua scelta. E io non potei fermarlo.
Mi diressi verso il negozietto del quartiere, dove incontrai Colton alle prese con un cliente.
Mi fece un cenno con la testa e concluse l'affare solo perché il cliente mi vide e mostrò un'improvvisa fretta.
<Ciao, Jessie. Le solite?> mi domandò con un tono piatto.
Annuì.
Lui, con un'insolita svogliatezza, me le porse.
<Che cazzo hai, Colton?> ringhiai, afferrandolo per il colletto. <Ce l'hai con me?>
<Prendi queste e vattene. Mi stai facendo scappare i clienti.>
Gli allungai dei soldi, ma li rifiutò. <Non vogliamo soldi sporchi di sangue.>

Uscii, piangendo, dal negozio e mi diressi verso l'unico parco, decisamente non molto curato, del Distretto.
Mi sedetti sotto un albero.
Le foglie cominciavano a ingiallirsi e, qualcuna, anche a cadere.
L'autunno mi piaceva.
O, almeno, mi sarebbe piaciuto se non avessi partecipato agli Hunger Games.
Ci rimasi per ore.
Saltai il pranzo, ma tanto non avevo fame. Per giorni digiunavo. Avevo lo stomaco chiuso e una forte emicrania.
Mi stropicciai gli occhi, ancora bagnati e mi rigirai.
Due occhi tondi, azzurri e grandi mi fissavano.
Una ragazzina con i capelli biondi, morbidi e ondulati, e un faccino paffuto, seguiva ogni mia mossa.
Poi, si abbassò e mi mise le mani addosso.
Credevo volesse uccidermi, ma, prima che potessi reagire, mi fece il solletico.
Mi fece stare bene. Risi come non avevo mai fatto prima.
Quella bambina era stata la mia ancora di salvezza. Esattamente come la sua famiglia.
Gli unici a non odiarmi.
<Ciao.> le dissi semplicemente.
<Ciao, vincitrice.> mi salutò. <Mi chiamo Lara. Lara de la Cruz.>
<E dimmi, Lara...> esordii. <non ci vai a scuola?>
Lei scosse la testa. <Mi fa schifo andare a scuola. Dicono tutti tante bugie.
E la mia mamma e il mio papà dicono che raccontarle non è una bella cosa.>
Io annuii. <I tuoi genitori hanno perfettamente ragione. Sai, Lara?>
<Lo so. Tu che cosa fai da sola?> mi domandò la bambina.
<Tutti mi odiano al Distretto. Dovevo staccare un po'.>
Lara mi diede un buffetto per guancia. <Ma tu sei simpatica.
Mio fratello è amico di Ginevra. E lei non ti odia.>
<Oh...> rimasi senza parole. <È davvero una bella notizia.>
<Vero?>
Quella bambina sapeva farmi star meglio. Era brava a parole. Molto.
Si alzò da terra e mi porse la mano. <Vieni.>
<Dove mi porti?>
<A casa mia.>

ʟᴀ ᴛʀɪsᴛᴇ sᴛᴏʀɪᴀ ᴅᴇʟʟᴀ ʀᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴅᴇʟ ᴅɪsᴛʀᴇᴛᴛᴏ 5Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora