Mi svegliai di soprassalto con un forte dolore alla testa.
Mi pulsava tantissimo e stavo male da far schifo.
Provai a rialzarmi, ma le braccia erano indolenzite; cercai di ricordare quello che mi era successo, ma avevo solamente dei ricordi vaghi.
Continuava a venirmi in mente un'immagine molto sgranata di Seneca e Plutarch intenti a conversare.
Captai qualche frase detta da mio marito, ossia: "Sono un ibrido di Capitol City, ma lei non lo sa".
Spalancai gli occhi improvvisamente. Mi pizzicavano.
Non riuscivo a decidermi. . .
Mettermi a piangere? Oppure mettermi a urlare?
Scelsi la seconda.
Mi dimenai nel letto finché non apparve una donna, presumibilmente infermiera, che mi appoggiò la mano sulla fronte e me l'accarezzò, più che con dolcezza, con malizia.
Mi schiacciai contro lo schienale del letto e cominciai a scalciare come un cavallo impazzito, nella speranza di colpire l'infermiera, che si stava avvicinando troppo a me.
<Basta così, Lesbia. Lasciala.>
Lesbia si allontanò da me. Continuava, però, a guardarmi negli occhi.
I suoi trasmettevano odio.
Parevo un animale pronto per essere macellato.
Un'altra donna, stavolta più anziana di Lesbia, camminò fino al mio letto e prese posto sulla sedia alla mia sinistra.
Aveva un colorito strano: giallo canarino. E non certo perché stava male.
<Ciao, Jessie.> mi disse dolcemente. Anche se di dolce, in quella voce, c'era ben poco. <Sono la dottoressa Havertz. Come ti senti?>
<Nauseata.>
La dottoressa Havertz si girò verso Lesbia e le fece intendere che avrebbe dovuto annotarsi ogni mia parola.
<Altro?> insistette la Havertz.
Mi misi a riflettere mentre lei mi toccava la fronte per non so quale motivo.
Scossi il capo.
<N-Non mi pare. . .>
La dottoressa si girò di nuovo verso l'infermiera.
Intravidi un sorriso compiaciuto comparire sul viso della donna seduta al mio fianco.
<Perché?> sussurrai. <Dovrei sentire qualcosa di diverso?>
<No, tesoro. Va tutto bene.>
La mia mano, con un gesto furtivo, afferrò il polso della dottoressa Havertz, facendola sussultare.
<Mi lasci.> intimò lei.
Io serrai la presa sul suo arto.
<No.> rimarcai. <Voglio sapere che cosa mi è successo.>
Lesbia si fece avanti, liberando la sua superiore.
<Suo marito ha insistito tanto per farla ricoverare qui a Capitol City.>
Chiusi gli occhi. Davvero Seneca aveva fatto una cosa simile?
Delle lacrime amare mi solcarono il viso.
Non mi preoccupai neppure di asciugarle. Non ne avevo le forze e non ero intenzionata a farlo.
Urlai.
Inveii contro Seneca come se non ci fosse un domani.
Perché mai chiedere un mio ricovero?
Io stavo imparando così bene a gestire la rabbia.
E lui aveva rovinato ogni mio risultato.
Le due donne mi lasciarono sfogare, chiudendo, una volta fuori dalla stanza, la porta a chiave.
Doveva trattarsi di una stanza insonorizzata dato che nessun altro varcò quella dannata soglia prima di Plutarch Heavensbee qualche mese dopo.Ogni volta che provavo a dormire, vedevo solamente Seneca che parlava con qualcuno e ripeteva di essere un ibrido e di non amarmi.
Diceva che mi aveva sposata solamente perché, dopo i miei giochi, era la cosa che si aspettava tutta Panem, ma che lui, per me, provava solo una gran pena.
Aggiungeva, inoltre, che il lavoro come stratega era molto appagante e che gli piaceva condurre uno spettacolo così macabro come gli Hunger Games.
Lui adorava far soffrire i Distretti.
Dopo l'ennesima frase cattiva uscita dalla sua bocca, cercai di fare l'esatto opposto: restare sveglia il più possibile.
Non bevevo spesso caffè, ma durante quel ricovero abusai di caffeina.
Il che non fece altro che peggiorare la mia condizione fisica e mentale.
Lesbia mi controllava spesso e volentieri.
Passava almeno dieci volte al giorno nella mia stanza; non mi parlava.
Mi fissava e basta.
Quegli occhi color violetto mi tormentarono per anni nei miei incubi peggiori.
E, giornalmente, veniva a farmi visita anche la dottoressa Havertz.
Entrava con un ago di almeno venti centimetri in mano.
La siringa conteneva un liquido color ambra e me lo iniettava, dicendo che avrebbe migliorato il mio sonno.
Aveva ragione. In parte.
Dormivo più di otto ore. Un vero e proprio record dalla fine dei miei Hunger Games.
Ma solo perché quel maledetto liquido mi impediva di svegliarmi.
Sognavo perennemente Seneca.
Avevo persino cominciato a vederlo appena mi voltavo per cambiare posizione.
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ʟᴀ ᴛʀɪsᴛᴇ sᴛᴏʀɪᴀ ᴅᴇʟʟᴀ ʀᴀɢᴀᴢᴢᴀ ᴅᴇʟ ᴅɪsᴛʀᴇᴛᴛᴏ 5
FanficCaesar mi sorrise, mostrando tutti i suoi bellissimi, e fintissimi, denti bianchi come il marmo, e, al posto di rincuorarmi, mi chiese se avevo qualcuno da cui tornare finiti gli Hunger Games. Udendo quella domanda mi misi a ridere: chi mai avrebbe...