Prologo

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Venerdì 13 gennaio

<<Eleonor vi prego, dovete aiutarmi a capire come aiutarvi>> continuava a ripetere quelle parole da circa un'ora. Ma la ragazza era immobile; fissava il soffitto bianco della stanza in cui risiedeva, inerme sul letto in ferro, con i polsi legati ai margini.

Era in uno stato catatonico, incapace di emettere suoni. Ma dentro la sua testa mille voci a lei sconosciute stavano urlando, con tanta voracità, che quasi potevano farle sanguinare le orecchie. I capelli rossi erano sparsi sul cuscino, ed il corpo era supino sul letto dalle lenzuola candide, proprio come la veste che ella indossava.

<<Ho bisogno di risposte, vostra madre non sarebbe d'accordo con il vostro silenzio>> le ripeteva ancora. <<Perché avete cercato di uccidervi per ben dodici volte in due anni?>> l'anulare sinistro si mosse, dando segno della vitalità della ragazza.

Due anni sono formati da ventiquattro mesi, settecento trenta giorni, circa centocinque settimane, diciassettemila cinquecentoventi ore. Lei aveva passato tutto quel tempo a cercare un modo per porre fine alla sua vita. Ma a quale scopo? I suoi genitori le erano sempre stati accanto, i suoi amici l'avevano sempre amata. La scuola non era un problema per lei, aveva buoni voti.

<<Perché non mi parlate di Thomas?>>. Dalle sue labbra non uscì niente, neppure un lamento. <<Vi va di parlarmi di Max? Di Sam?>> lo psicologo continuava a farle domande, e ad annotare sul taccuino a righe che usava ogni qual volta che parlava con qualcuno.

<<Vostra madre sta bene? L'avete vista in questi giorni? E vostro padre?>> le domande sembravano non finire più; erano troppe.

<<Ha parlato questa volta?>> una voce maschile, rude, si aggiunse a loro. <<Non ancora. Ha assunto uno stato catatonico, credo stia peggiorando>> lo psicologo sospirò, non sapendo come altro trattare la ragazza.

<<Sono tutti così: assumono droghe e poi vengono portati qui perché stavano per uccidersi. Nulla di nuovo>> parlò il dottore. <<Non credo abbia assunto droghe questa ragazza, non ne ha l'aspetto>> il dottore gli rivolse uno sguardo furente. <<Per me sono tutti uguali, tanto vale fossero morti>> mormorò uscendo come era entrato.

<<Eleonor mi dovrete parlare, altrimenti non uscirete mai da qui>> mormorò guardandola. Provava pena per la ragazza, così giovane ed indifesa. Aveva gettato al vento gli anni migliori della sua vita, ormai erano tre mesi che risiedeva nella struttura.

Aveva solo vent'anni, e i due anni precedenti li aveva usati per morire. Come poteva togliersi un dono così prezioso? Si chiedeva lui continuamente. Ma le risposte non arrivavano. I genitori della giovane erano sempre più disperati, e gli amici quasi stavano perdendo le speranze di poterla riabbracciare un giorno.

<<Se resterete qui non potrete più rivedere i vostri amici, e neppure i vostri genitori>> cercava in tutti i modi per smuovere la mente della ragazza, ma purtroppo non capiva. Per la prima volta gli era difficile aiutare un paziente.

<<Eleonor ho bisogno che mi diate un segno>> la pregò, addolcendo il tono della voce. Questa volta a parlare era un uomo che prendeva le sembianze di un padre, e si toglieva i vestiti da psicologo.

La ragazza voltò lo sguardo, e fissò imperterrita l'uomo. Egli rimase sorpreso, ma fu felice di aver ricevuto un piccolo traguardo.

<<Ton>> sussurrò la ragazza, quasi non si sentì. <<Che cosa avete detto Eleonor?>> gli occhi della ragazza divennero lucidi, l'uomo le si avvicinò non avendo capito le parole della ragazza.

<<Potete ripetere per favore?>> chiese gentilmente, ma pur sempre con tono professionale. <<Aiuta, per favore>> la voce si alzò di poco, ma rimaneva roca. <<Che cosa è successo?>> chiese nuovamente.

<<Ton>> sussurrò ancora chiudendo gli occhi. <<Chi è Ton?>> ma ella non diede risposta. Aveva detto troppo, le voci nella sua testa iniziarono a sgridarla. <<Eleonor mi dovete dire chi è>> le poggiò una mano sul polso, dove risiedevano alcune cicatrici.

<<Mi aiuti>> aprì gli occhi per un secondo. Li richiuse, rilassando il corpo. Era stremata, pur non avendo fatto alcuno sforzo fisico.

L'uomo uscì dalla stanza, e prese a camminare nel lungo corridoio; era tutto così lugubre, metteva i brividi. Un luogo dove non porteresti neppure il tuo peggior nemico. <<Dottoressa Portland segni per favore che sono appena uscito dalla stanza numero sessantasei>> la donna, al di là del bancone annuì digitando sulla tastiera del computer.

<<Come sta questa mattina?>> chiese con tono distaccato rivolgendosi all'uomo. <<Come al solito. Forse dobbiamo aumentare le visite, potrebbero farle bene>> propose sorridendole. <<Si ricordi che non è un albergo, ma una struttura per malati mentali>> lo rimbeccò la donna. <<E lei si ricordi di essere più gentile>>.

Ci vollero pochi secondi, perché l'uomo raggiungesse la sua auto. All'interno del mezzo controllò la cartella della ragazza che teneva con cura nella sua valigetta in cuoio. Aveva molte domande che gli ronzavano per la testa, ma nessuna di queste sembrava avere una risposta.

E se una risposta ce l'avevano, l'unica persona che poteva dargliele era sicuramente la sua paziente; ma ella non aveva alcuna voglia di comunicare. Doveva trovare un modo per farla parlare, altrimenti sarebbe rimasta lì il più a lungo possibile.

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