CAPITOLO XXI Confini spezzati

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Quando il sole aveva percorso un quarto di cielo, tutti i diciannove Prescelti si erano svegliati e si erano messi al lavoro: chi era andato a raccogliere la legna, chi a caccia, chi costruiva frecce, chi finiva di rammendare i vari vestiti sgualciti e chi tentava di migliorare nel dominio. Sotto l'acero erano rimasti Clelia e Kail, i più grandi. Loro non potevano soffrirsi. In realtà nessuno sopportava lei. Ogni volta che Clelia parlava lo faceva per provocare, sempre. Stava rammendando uno dei suoi abiti, mentre Kail le stava di fronte, appoggiato ad un tronco, occupato a sistemare il suo arco.

"Tu dove te ne andrai?", gli domandò Clelia gettandogli uno sguardo come se fosse stata seduta su un trono fatto d'oro e non di biancheria sporca.

"Che vuoi dire?", chiese Kail tentando di sembrare il più indifferente possibile, non voleva darle soddisfazione.

"Dopo essertene andato da qui."

"Ma non me ne voglio andare, non adesso almeno. È il posto più sicuro che conosco, non avrei nessuno a cui rivolgermi e poi ho la mia famiglia qui", il ragazzo scrutò di sottecchi Clelia che si era rimessa a rammendare con aria di sufficienza. "Perché?"

"Niente."

Dopo un'altra sbirciata, Kail tornò al suo arco e lei, nel vederlo distaccato, si accigliò aggiungendo: "Di sicuro io non rimarrò in questo posto pieno di terra a vita!"

"Ah, già, tu sei quella da grandi città e regge."

Clelia gli scoccò un'occhiata fredda e severa: "Non è colpa mia se da quando sono nata ho lavorato in posti con pavimenti di marmo e letti comodi."

"Ora si capiscono tante cose", disse il ragazzino senza degnarla di uno sguardo. "Comunque nessuno ti obbliga a rimanere."

"So quello che pensi, non m'importa. Tu non puoi capire. Cosa facevi tu? L'armaiolo?"
"Il fabbro!", esclamò Kail, offeso dal tono derisorio di lei, alzando il capo.

"Oh, chissà che lavoro!", lo canzonò con insolenza.

"E allora tu? Rammendavi qualche straccio e tenevi pulite le lenzuola!"

Il tono di Clelia divenne rabbioso: "Non sai quello che facevo io."

"Ah, già, le sporcavi le lenzuola, tu!"

"Non ti permettere!", Clelia lo folgorò con lo sguardo, ma le sue guance avevano perso colore.

"Allora smettila di dare aria alla bocca parlando del mio lavoro", anche Kail si mise a urlare.

"Ti riferisci all'accendere una manciata di carboni?!"

Il ragazzo gettò l'arco da una parte e scattò in piedi: "Tralasciando l'accendere e lo spegnere il fuoco, dovevo modellare armi e armature con il mio dono e sai chi le avrebbe usate?", le sue mani tremavano e gli occhi gli si appannarono. "Quei bifolchi, quei cani neri figli di chi-so-io e sai cosa si può provare a modellare lame che avrebbero usato contro i miei fratelli? Ogni volta che mi rifiutavo testavano il calore dell'acciaio sulla mia pelle o sui miei compagni", Kail tirò giù il lembo di stoffa scoprendo una spalla piena di cicatrici. "Mi bruciavano col mio stesso fuoco! Con quello che gli portavo."

Clelia sembrò sinceramente colpita, si strinse nelle spalle: "Non lo sapevo."

"Lo sapresti se avessi ascoltato, l'ho raccontato a Rufus l'altro giorno e tu eri lì, da una parte. Te ne stai sempre per conto tuo. Non fai altro che lamentarti da quando sei qui, come se sgobbassi dall'alba al tramonto. Eri abituata a riverenze e baciamani?"

"No."

"O forse ad avere la servitù che ti portava la colazione nel letto fresco di pulito, magari avevi anche qualcuno come noi al tuo seguito."

Cronache dei Figli del Cielo - Il Giglio di CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora