Capitolo XXIII Nera polvere

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Lontano dal confine a Nord della Foresta delle Ombre, oltrepassati i villaggi nelle campagne e i lunghi ettari di terreno coltivato, si giungeva ad una terra arida, buia, che sembrava distaccata dal mondo. Non era molto conosciuta, ma quei pochi che sapevano della sua esistenza la chiamavano 'La Valle dei perduti'. Più ci si inoltrava, più la luce veniva a mancare, l'aria diveniva pesante per via di una nebbiolina quasi persistente che non lasciava trasparire nulla dopo solo qualche passo. Non vi erano alberi, né cespugli, ma solo rovi e pietre. Solo di tanto in tanto nella radura sassosa spuntavano piccoli boccioli arancioni: gocce di lava, il cui profumo era velenoso, così qualunque cosa in quella terra. Le volte in cui c'era il sole, la sua luce veniva ovattata dalla nebbia rendendo l'aria opaca ed avvolgente.

Nel cuore della vallata, torreggiava la sua unica abitante e regina: una montagna, ma non una montagna come le altre, alta e larga dalle pareti nere e rocciose con al posto del cucuzzolo il nulla, come se un gigante le avesse mangiato la corona, lasciando un enorme buco che emetteva sbuffi di vapore grigio e bollente e, talvolta, anche di fuoco vivo. Quello era il segnale che l'ennesimo, orribile fatto era di nuovo accaduto dentro quelle fauci senza denti, perché era lì che avvenivano le cose più terribili che mai si potessero immaginare. Una prigione, una delle tante, nella quale venivano gettati i Figli del Cielo, quelli senza disciplina, traditori, assassini, condannati a stare in un luogo fatto della loro essenza e che li avrebbe ingoiati senza volerli sputare più. Nemmeno un Prescelto poteva sopravvivere alla sua saliva fatta di lava. Nessuno poteva.

Da quando divenne un luogo di prigionia, la montagna aveva mutato il suo aspetto, dilagando la morte che la abitava in tutta la valle. Ogni cosa in quella terra, un tempo rigogliosa, aveva smesso di nascere e crescere. Sembrava che la stessa montagna non volesse essere partecipe di quelle ingiustizie che la coinvolgevano, ma nessuno si curava del volere di una regina senza corona. E così, solitaria, con la sua tremenda bocca gridava al Cielo le ingiustizie che venivano compiute nelle sue viscere.

A sud-ovest di quella valle, ritagliato in un'altra parte di mondo, vi era un secondo luogo terribile, non tanto per la flora che lo circondava (non era differente da quella di gran parte dell'Ovest, fangosa e aspra), ma per chi l'abitava. Lontano più di due giorni da ogni città che la circondasse, vi era una rocca di mattoni neri, circondata da solide mura sempre brulicanti di sentinelle. Era simile ad una città in miniatura, con strade e casupole nere. Nessuno poteva entrarvi, solamente uomini corazzati e avvolti da mantelli neri come la pece. Questo era il loro covo. Questo era il cuore di quel Corpo intoccabile. Era lì che venivano prese le decisioni sul destino dei Figli del Cielo.

Qualcuno al loro servizio stava cavalcando verso il grande cancello di ferro, in quel giorno di inverno inoltrato; un individuo incappucciato di verde con arco e frecce sulla schiena e la spada alla cintura. Era sua abitudine recarsi lì, trascorsi i mesi necessari alle missioni che gli venivano affidate. Finalmente lo vide: il grande, nero torrione che si ergeva al di là delle mura. La prima volta che aveva oltrepassato quel cancello risaliva alla sua infanzia; dopo averlo varcato la polvere che si respirava al di là ti rimaneva addosso, dentro i polmoni, pronta a ricordare il contratto fatto. Il passo affrettato del suo cavallo arrivò alle orecchie delle sentinelle di vedetta come un rumore sordo, che colpiva le mura di cinta per poi perdersi nella aria nebbiosa. Gli zoccoli affondarono nel fango, immobili, non appena il padrone gli ordinò di fermarsi.

"Chi è là?", si sentì gridare dall'alto dei cancelli serrati.

"Un servitore", rispose l'incappucciato.

"Un nome", ribatté la voce.

"Sono stato tradito dal Cielo."

Con un cigolio e un gran tonfo, il portone si aprì e la via si liberò. Eccolo il suo lasciapassare. Non aveva mai esitato ad esclamare quelle parole, eppure ogni volta che le gridava a voce piena qualcosa lo pungeva nel petto e nelle vene. Al di là del cancello, l'uomo non dovette nemmeno incitare il proprio cavallo, sapeva bene di dover prendere la strada sterrata verso l'altura. Percorrendola, l'incappucciato non rivolse nemmeno uno sguardo agli uomini che incrociò, né all'ambiente circostante: un insieme di casupole e tende. Non vi erano osterie o locande là, solo armerie e un fabbro, il cui martello scandiva il tempo di ogni cosa. Oltrepassato il piccolo agglomerato di abitazioni, giunse ad un altro portone, aperto. I due soldati di guardia, uno appoggiato alla sua lancia e l'altro seduto su una cassa, non se ne curarono e nemmeno lui rivolse alcun saluto o cenno. L'incappucciato si ritrovò in un piccolo cortile fangoso che brulicava, in tutta la sua capienza, di uomini scuri e ferraglie. Il cavallo si fermò ai piedi di una larga scalinata sapendo che non gli era permesso proseguire oltre; l'uomo smontò e prese alcune carte dalla sella. Un ragazzino seduto sul muretto di pietra si apprestò ad aiutarlo.

Cronache dei Figli del Cielo - Il Giglio di CenereDove le storie prendono vita. Scoprilo ora