Capitolo 36

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Il ritorno mi parve più breve del previsto, quando atterrammo mi sembrava che fossimo partiti da soli dieci minuti. Arthur ci venne a prendere con l'auto dalla pista d'atterraggio e fui felice di vederlo "Sei molto meglio tu della tua versione francese!" gli dissi abbracciandolo di lancio, intontita dal viaggio e dalla stanchezza. Lui rimase rigido, ma mi fece un cenno del capo con un ringraziamento e un accenno di sorriso.
"È bello vederti, Arthur" gli disse Henry con una stretta di mano prima che entrassimo nell'auto.
Quando mi ero svegliata quella mattina Henry non c'era, era andato a correre. Siccome era presto, mi ero riaddormentata subito e al mio risveglio lui era seduto sul letto, dandomi le spalle e guardando qualcosa che teneva tra le mani. Avevo provato a vedere cosa fosse, ma lui me lo impedì rimettendo svelto il misterioso oggetto nella tasca della sua giacca.
"Henry..." avevo mormorato, sperando che si girasse e mi consentisse di leggergli il viso, per capire cosa stesse provando, ma quando lui si girò, la sua espressione era imperscrutabile "Sì?" mi rispose con una serenità quasi forzata.
Una conversazione silenziosa si insinuò tra di noi.
Non parliamone.
D'accordo.
E non lo facemmo, nessuno di noi due accennò di nuovo agli eventi della notte precedente o alla nostra conversazione, che forse era il vero problema. Non riuscivo bene a capire in che modo potessi averlo turbato, ma non mi sentivo nemmeno in dovere di chiedergli scusa, perchè non avevo detto niente che non fosse vero.
C'era però della tensione da parte sua, c'era stata per tutta la giornata anche se aveva provato a nasconderla. Era stata una domenica tranquilla: avevamo fatto i turisti, vedendo posti ancora non visitati e assaporando ogni momento in quella città. Mi ero sentita un po' triste durante la partenza, non volevo andarmene ma dovevamo.
Al nostro rientro, era molto tardi e le mie amiche stavano sicuramente dormendo, così mi limitai a mandare loro un messaggio per avvertirle che eravamo arrivati a Londra e che Arthur ci stava portando a casa di Henry.
"Hai fame?" domandò Henry guardando fuori dal finestrino "Non abbiamo cenato"
Scossi la testa "No, sono solo stanca" mi guardai le mani strette in grembo "Ma se tu hai fame"
"Anch'io sono stanco" mi interruppe.
Incrociai gli occhi di Arthur nello specchietto retrovisore, che ci guardava con curiosità. Anche lui aveva notato che qualcosa non andava, almeno così ne avevo la conferma.
Siccome non ero una di quelle persone che si tenevano tutto dentro fino a trasformare il proprio turbamento in risentimento, posai il mio sguardo su Henry "Sei stato strano per tutta la giornata, c'è qualcosa che non va" la mia non era una domanda, ma un'affermazione. Anche se prima avevo silenziosamente acconsentito a non parlarne, non mi piaceva non comunicare con lui.
Lui strinse la mascella ed evitò il contatto visivo, mossa che mi preoccupò "Non c'è niente che non va" disse a denti stretti.
Inarcai un sopracciglio e incrociai le braccia, seccata.
Non parlammo per tutto il tragitto verso casa sua e nemmeno mentre ci preparammo per andare a letto. Nessuno di noi due dormì bene, la mattina avevamo entrambi gli occhi gonfi e una faccia poco riposata; ci parlammo solo per dirci il buongiorno, poi sentii la voce di Henry quando mi chiese "Vuoi che ti accompagni alla Foster?" mentre si allacciava la cravatta.
Mi alzai la zip dei pantaloni beige e mi infilai un maglione verde petrolio "Sì, va bene"
Parlammo di nuovo in auto, quando lo informai che Sam, Cosimo, Mario e Alessio sarebbero venuti a Cambridge per Pasqua, avevano diviso i costi e si erano trovati un albergo vicino al Campus.
Lui commentò dicendo che era felice per me, perchè sapeva che mi mancavano, io gli risposi che sì, mi mancavano e non vedevo l'ora di vederli, poi ci salutammo e io scesi dall'auto, pronta ad affrontare un'altra giornata di lavoro. Durante la pausa pranzo incontrai Federica in un bar a metà strada tra la Foster e la società di Henry.
Le raccontai tutto di Parigi, incluso il mio disastroso sabato sera, omettendo però la strana conversazione tra me e Henry e tutto ciò che ne aveva seguito. Non sapevo nemmeno io come spiegarlo e non mi andava di parlarle, così le chiesi cosa lei e le ragazze avessero fatto durante quel fine settimana. Mi raccontò che loro tre e i loro rispettivi ragazzi avevano cenato nel nostro alloggio, Greta e Shawn avevano fatto la spesa e avevano deciso di cucinare per tutti, mi disse che in quei momenti erano sembrati una coppia adorabile. Continuò dicendomi di come Vicki, Josie e Lizzie si fossero uniti a loro dopo cena e di come Luke avesse mandato in bancarotta tutti a Monopoly. Alla fine mi informò nella passione segreta di Vicki: la moda. Aveva mostrato loro dei disegni di alcuni abiti che aveva disegnato, chiedendo il parere delle ragazze "Erano molto belli" fece Federica "Non avevamo idea che le piacesse disegnare vestiti, ma è molto brava!"
"C'è anche un'altra cosa" disse poi Federica con un po' di esitazione "Ma devi giurarmi di non dirla a Henry"
"Giuro" le risposi sincera. Amavo Henry, ma amavo anche le mie amiche e se volevano che mantenessi un segreto, lo avrei fatto. Henry avrebbe fatto lo stesso con Dylan.
"Alle altre ne ho parlato ieri" iniziò "Luke mi ha detto che sta pensando di lasciare la società di Henry per fare qualcosa di suo"
Alzai le sopracciglia sorpresa "Wow! E cosa vorrebbe fare?"
"Non lo so, veramente" fece spallucce "Sai com'è Luke, non ha approfondito l'argomento perchè siamo stati interrotti e poi non ha più ripreso il discorso, non gli chiedo niente perchè so che non mi risponderebbe, perciò aspetto che sia lui a parlarne di nuovo"
"È una bella cosa" replicai "Che voglia fare qualcosa di suo. Non ne farò parola con Henry, tranquilla"
Lei tirò un sospiro di sollievo e poi fece una risata "Mi sento più sollevata ora che te l'ho detto, mi sento in colpa se non parlo di una cosa con tutte voi"
Le sorrisi "Lo stage come sta andando da te?"
Federica mi rispose quasi subito "Bene, Henry sembra svogliato però"
"In che senso?"
"Non lo so, sembra che non abbia interesse"
Mi sforzai a deglutire "Forse è stanco, il viaggio è stato estenuante e siamo tornati tardi"
"Sicuramente" concordò lei, guardandomi in modo sospettoso "Non avete litigato, vero?"
"Cosa? No!" mi affrettai a rispondere.
"Allora è solo stanchezza, Giselle quasi lo stava implorando di darle qualcosa da fare"
Feci una risata forzata, poi guardai il mio orologio "Pausa pranzo finita"
"Oggi torno con Luke, viene a Cambridge e stiamo un po' insieme"
Annuii mentre mi rimettevo la giacca, là faceva molto più freddo che a Parigi "Okay, io torno con Henry" ci abbracciammo e dopo tornammo a lavoro.
Accettai benevola tutti i compiti che Jim mi assegnò e quando arrivò l'orario di andare via, gli chiesi se volesse che facessi qualcos'altro. Mi piaceva tenermi impegnata per evitare i miei pensieri.
"No, Evelyn, vai a casa" mi rispose lui stranito "Come fai ad essere così attiva di lunedì?"
Gli risposi con un sorriso, ma non verbalmente, poi entrambi ce ne andammo per la nostra strada. L'auto di Henry era parcheggiata davanti all'ingresso, lui era in piedi e si stava appoggiando ad essa "Ehi" mi salutò con un sorriso "Come è andata la giornata?"
Un cambiamento radicale rispetto a stamattina.
"Bene" gli risposi, lasciando che premesse le sue labbra sulle mie. Non ci baciavamo da domenica sera "Ho lavorato instancabilmente, ma mi è piaciuto"
Mi aprì la portiera dell'auto e io entrai, lui fece il giro e poi si sedette al posto del guidatore "A te come è andata?" gli chiesi, con una tensione che detestavo avere.
"Oggi non ero al mio massimo" fui felice che non mi mentisse, che non mi dicesse che era andata bene anche se non era vero "Credo di aver turbato molto Crystal, continuava a ripetermi che partecipare alle riunioni era importante"
"Non ha tutti i torti" scherzai "Soprattutto se sei il CEO"
Henry sbuffò, poi sorrise "Non mi sentivo in vena di fare molto, oggi"
"Tutti abbiamo quel genere di giornate" replicai "Ora è passato?" la mia domanda non riguardava il lavoro, lui lo capì.
Si voltò per guardarmi negli occhi e annuire "È passato"
Così come era venuta, la tensione sparì ed eravamo di nuovo noi due, Henry e Evelyn, inarrestabili. Qualunque fosse il problema, sapevo bene che non era andato sparito nel nulla, ma non dovevamo parlarne per forza, non ora perlomeno.
I nostri sguardi, come la notte precedente in auto, parlarono senza proferire parola.
Non parliamone più diceva il suo sguardo.
Mai più concordai.
E non lo facemmo, non ne parlammo più o, sarebbe stato meglio dire, non ne avremmo più parlato per sei anni.

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