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11 luglio 2021.
Ore 7:11

Non riuscivo più a dormire.
Eravamo già a Londra.
Era il grande giorno.
Era la finale.
Federico contro Kalvin.
Italia-Inghilterra.

Mi giravo e rigiravo nel letto, ma nulla. Dopo la discussione con Chiesa i miei macigni si erano alleggeriti, ma non scomparsi del tutto.

Eravamo amici, solo amici che si erano lasciati trasportare dal momento, tutto qui.
Che si erano abbandonati al fuoco dei loro sentimenti.

Il secondo a svegliarsi è Matteo, mi guarda e sorride.
«Buongiorno» dice con ancora la voce rauca.
«Buongiorno» rispondo.
Dopo un po' sento stiracchiarsi Ciro e poi sbadigliare Lorenzo.

Avevamo meno di un'ora per raggiungere la sala pranzo, e non sappiamo come, ma ci riusciamo.
Alle 7:45 eravamo tutti pronti.
I ragazzi vestiti di tutto punto, con maglia nera, giacca grigia e pantaloni neri, mentre io opto per il total black.
Ieri abbiamo ordinato la nostra stanza a Coverciano, i letti, i borsoni e gli armadi.

Ci siamo fermati un attimo, ognuno sul proprio letto ordinato, che poi, quei letti non ci erano mai appartenuti davvero, ma ormai erano diventati casa.

Ci siamo guardati e abbiamo sorriso.
Sorridevamo per non piangere forse.
Sorridevamo, ma in fondo non eravamo felici.
Non eravamo felici perché la fine di qualcosa porta sempre tristezza.
Però la fine è anche l'inizio.

Ci siamo riuniti verso il centro della stanza e ci siamo abbracciati.
Ho chiuso gli occhi.
In quell'oscurità mi passano d'avanti tutti i momenti trascorsi insieme, le notti insonni, le notti passate nella 112, quel giorno in campagna, gli scherzi di Lorenzo a Ciro.

Luglio è passato troppo in fretta, non ce ne siamo neanche accorti.

***

Alle otto, come sempre, si va a fare colazione.
Federico era già seduto ai lati del tavolo, era visibilmente in ansia, chiunque se ne sarebbe accorto, ma forse eravamo un po' tutti così, forse in quella stanza non si respirava aria, ossigeno ma ansia.
Io, con il mio solito cappuccino e le due fette di pane tostato con marmellata, prendo posto accanto a lui.
Il suo piatto, a differenza del mio, era quasi vuoto, ma in fondo non so perché avessi preso quelle cose, non avevo neanche fame, forse era per ricordare i primi giorni all'hotel, la mia solita colazione.

La mia mano sinistra vaga sotto il tavolo, in cerca della sua, la trova e la stringe forte.

Federico si gira di scatto, i suoi occhi già grandi, erano sgranati, e le labbra non emanavano nessuna emozione. Gli sorrido. Volevo dirgli di stare tranquillo, che andrà tutto bene, che io sono con lui, che non lascerò la presa, che non lascerò la sua mano fin quando lui non mi chiederà di lasciarla, ma ovviamente non dico nulla di tutto ciò, queste parole rimangono solo pensieri.
È solo allora che in lui vedo una luce di felicità, di sicurezza, perché anche lui mi risponde sorridendo.

Mio padre era a capo tavola, lui ci aveva portati lì, lui ci aveva portato fino ad oggi, lui ci aveva portato fino a quel preciso momento, lui ci aveva portato in finale.

Dopo la colazione ci spostiamo in sala conferenze per l'ultima riunione ed è lì che lui prende parola.

«Okay ragazzi, prima di scrivere... Questa sembra la loro formazione. A noi non cambia assolutamente nulla, okay? Noi facciamo la nostra partita.»

Sul grande foglio mio padre scrive la loro squadra, e non posso fare a meno di non notare il numero 14, Phillips, che solo ora a pensarci, il numero 14 è anche il numero di Federico.

109 || Federico Chiesa ||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora