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Mi ritrovo con la scatola del test di gravidanza in mano mentre ritorno in hotel.
Avevo quasi le lacrime agli occhi, la mia bocca era sempre più serrata e asciutta.
Le mie mani sudavano fredde e il mio cuore si faceva sempre più insistente.

Apro la porta della camera e Kalvin era seduto sul bordo del letto con le mani che stringevano i capelli ricci.
Subito alza la testa.
«Dove sei stata?» mi chiede con un pizzico di rabbia nella voce.
«Avevo bisogno di aria.» dico liscia.

Lancio la busta contenente il test sul letto, lui la prende.

«Sei sicura..?» aveva paura, in fondo chi non l'aveva? Come potevo biasimarlo?
«Si.» io però, nonostante l'ansia, ero decisa, era l'unica risposta che avrei mai potuto avere in questo momento.

***

Mi chiudo in bagno e dopo neanche cinque minuti ritorno a sedermi sul letto.

«Bisogna aspettare quindici minuti.» dico guardando un punto fisso.

Kalvin annuisce soltanto.
Il suo telefono non smette di vibrare, lo schermo si illumina in continuazione. Lui si accorge di questa cosa, per questo gira il telefono a faccia in giù.

Chi era?

«Lavoro.» risponde come se avesse letto nei miei pensieri.
«Rispondi allora.»
«No, questo è più importante.»
Annuisco.
L'aria si faceva sempre più pesante e la tensione era così massiccia che poteva tagliarsi con un coltello.

Controllo l'ora, accendo il telefono, erano passati ancora due minuti.
Due.
Fottutissimi.
Minuti.
Ne mancavano altri tredici. Un'eternità.

Nella stanza c'era solo silenzio, un silenzio assordante che mi scuoiava viva e mi ricontorceva le viscere. Mi coprivo le orecchie, ma in fondo non dovevo proteggerle da nulla, anzi, forse dovevo proteggerle proprio dal nulla.
Nessuno dei due aveva il coraggio di parlare, o meglio, Kalvin sì.
«Però, in fondo, se ci pensi, non sarebbe male avere un bambino...» dice lui in un sussurro. Come se stesse pensando ad alta voce.

Cosa?

«Cosa?» domando accigliata.
«Pensaci, un piccolo Kalvin o una piccola Mia gironzolare per casa...»

Allora non ho sentito male. Stava davvero credendo a ciò che diceva? Era davvero sicuro delle sue parole?

Visto che da me non usciva neanche una sillaba lui continua, cercando di migliorare la situazione.

«Sto solo provando a vedere il lato positivo.»
«Stai solo peggiorando la situazione.» dico, forse troppo brusca.
Lui si alza di scatto dal letto.
«Perché fai così?» alza leggermente la voce.
«Così come?» anche io.
«COSÌ!»
«Scusami se non sono la persona più felice al mondo in questo momento!»
«Io mi sto davvero sforzando di vedere qualcosa di buono e invece tu no!»
Io mi alzo pure dal letto e lo raggiungo.
«Kalvin. Ho 20 anni. L'ultima cosa che in questo momento vorrei è un bambino, lo capisci?» dico con voce pacata ma che non faceva altro che far trasparire la mia rabbia.
«Beh, allora dovevi stare più attenta.»

Veleno.

«Quindi vuoi dire che adesso la colpa è mia?!»
«È sempre colpa tua Mia! SEMPRE! Se non avessi avuto la testa per i cazzi tuoi, non saremmo qui in questo momento!»

È troppo.

«Perché fai sempre così?»
«In che senso?»
«Perché devi sempre ferire le persone?»
«Sono fatto così, e lo sai.»
«Non è una giustificazione.»

Nessuno dei due urlava, uno di fronte all'altro, che poi si stava trasformando in un fronte di guerra, era diventata una guerra fredda, gelida, in piena estate, il sole fuori, il ghiaccio dentro. Mare e neve.
Avevo quasi le lacrime agli occhi, ma lui non se ne meritava neanche una goccia. Una singola molecola d'acqua. No.

109 || Federico Chiesa ||Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora