XLI

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Fa freddo e qui c'è solo silenzio.

In effetti, dove è qui? Non c'è nulla. Per un po' penso di essere morta, eppure sento la caviglia dolorante per colpa delle catene e ho una fitta allo stomaco. Speravo ci fosse una luce accecante e che tutto il dolore scomparisse; io sono ancora qui, a guardarmi intorno in una landa desolata senza alcun suono o universo.

Cammino. Corro. Non arrivo da nessuna parte. Nessun ostacolo o erranti di passaggio. Chiamo aiuto e la mia voce si perde nel nulla, senza trasportare suoni. La gravità non esiste in questo posto, mi pare di camminare su una lastra di ghiaccio e volo senza peso ovunque io desideri.

Uscire da questo posto sembra impossibile e, dopo dei lunghi minuti, comincio ad avvertire un vuoto nel petto, simile ad un formicolio. Il senso di panico e d'ansia aumenta e ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa per strada. Torno indietro, o almeno così mi sembra, e cerco.

Mi dimentico cosa sto cercando. Questa sensazione non aiuta affatto.

Odo un singhiozzo strozzato e mi giro attenta, scattando verso la direzione del suono. C'è una ragazzina che piagnucola tra le sue braccia, a terra. Ha le braccia ricoperte di lividi e le ginocchia sbucciate, i suoi capelli biondicci le ricadono disordinati e vispi sulla fronte.

«Ehi» la chiamo. «Mi senti? Chi sei?» Lei non mi ascolta e frigna. «Perché piangi?»

La tocco. È incorporea come fumo e la sua immagine non viene compromessa. Alza il mento per pulirsi gli occhi e vedo che è me. È Sasha, uguale a come ero un anno fa, la stessa ragazzina fragile con il corpo pieno di lividi. Rivedermi in questo modo patetico e indifeso mi fa montare imbarazzo e tristezza allo stesso tempo.

Lei si tira su il naso e singhiozza.

«Va tutto bene» la tranquillizzo. «Non ti farò del male.»

Se potessi toccarla sarebbe meglio, le mie mani attraversano il suo corpo e nonostante provi a stringerla o attirare la sua attenzione, non mi nota. Capisco che non mi vede e rimango davanti a lei, inerme, a sentirla piangere. Provo a immaginare chi le ha fatto del male, tra tutti i mostri che ho visto.

«Si chiama subconscio, se te lo stai chiedendo» mi avvisa una voce femminile alle mie spalle.

Mamma appare e io rimango a fissarla incredula, pensando sul serio di essere morta. Tutte le orribili sensazioni che provo scompaiono e sono felicissima. Sono un Demone, un essere immondo e immortale, la strada che ha percorso mia madre è stata divisa dalla mia da tempo. Forse non l'ho mai nemmeno intrapresa. Rivederla è un miracolo.

Mamma è bella proprio come lo era un tempo, ha dei lunghi capelli biondi e occhi azzurri, ha una luce splendente che l'avvolge come un manto. Inclina la testa quando rimango a fissarla con la faccia di una che ha appena visto un fantasma.

«Mamma?» pigolo pianissimo.

«Sì?» civetta con voce dolce.

Mi rialzo. Ho il cuore che batto a mille e le sfioro la mano. Riesco a toccarla e mi getto su di lei in un balzo, stringendola forte. Il suo corpo è caldo e non è come ricordavo, non è più debole e ossuta, la sua pelle è senza macchie e liscia. Lei ride intenerita e mi stringe forte a sé. Il suo profumo è dolce, buono. Umano.

«Credevo di averti persa» mormoro, fissandola in faccia.

«Tu mi hai persa, tesoro» mi corregge senza cattiveria. «Quella notte, ti ricordi?»

Ci penso. Ho qualcosa nella testa, un puntino che mi impedisce di ricordare. So che mia madre è morta, ma come? Resto in silenzio e il suo sguardo si fa deluso. La mia testa ha qualcosa che non va.

La leggenda di KiralDove le storie prendono vita. Scoprilo ora