III

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(Samuel Allan)

«Questa è un'ottima notizia» dico.

«Sei cresciuta veramente tanto dall'ultima volta che ti ho visto. Ovvio, credo che andassi ancora alla scuola elementare e...»

«Mi conosce?» lo interrompo confusa.

«Da quando eri piccola così.» Indica un'altezza inferiore alle sue anche. Ci penso a lungo e sono più che certa di non averlo mai visto. Mi ricorderei di un Samuel Allan nella mia vita. «È normale che non ti ricordi di me, eri molto piccola. A quel tempo ti ho dato una caramella, una alla fragola per essere più precisi, e ti è piaciuta molto.» La fragola è il mio gusto preferito. «Conosco meglio tuo padre.»

Provo una sensazione strana. Il mio cervello è certo di non aver mai visto quest'uomo di persona e lo conosco solo grazie alle sue pubblicità sparse in giro per la contea, eppure il mio stomaco è di tutt'altra idea. So riconoscere una persona cattiva e, nonostante il suo sorriso smagliante, riesce a farmi avere la pelle d'oca.

«Devo andare a fare i compiti» intervengo cauta, sperando di non dire altre cose sconvenienti.

«Vai pure, piccola. Lo studio è importante. Avremo altre occasioni in futuro, ora io e tuo padre dobbiamo parlare di affari» afferma.

Ah! Questa è una vera cosa da stalker-truffatore. Non ci tengo a rivederlo e se mio padre non osa replicare significa che c'è qualcosa di marcio sotto. Ha vari soci che gli procurano i finanziamenti necessari, sponsor che mirano alla sua popolarità per remargli accanto e non ha mai accennato al fatto che lavorasse con Samuel Allan.

Non voglio sapere oltre.

Mi porge di nuovo la mano e attende. La guardo attenta, sospettando un tranello. Difficile credere che possa esistere una bellezza così perfetta e perfida allo stesso tempo. Decido che è meglio togliersi da lì alla svelta e gliela stringo. Un brivido freddo mi percorre le ossa della schiena, fino al cervello e mi fa alzare i peli sulle braccia.

Con uno scatto mollo la presa e indietreggio in difesa. Samuel mi guarda da cima a fondo, studiandomi come se fossi improvvisamente diventata un oggetto da esposizione.

«Allora? Ci accomodiamo, vecchio mio?» propone Samuel, staccandomi gli occhi di dosso. Indica la direzione del suo studio, sapendo alla perfezione dov'è, nonostante non sia mai venuto in casa.

«Certo» gracchia mio padre. «E tu non avevi dei compiti da fare?»

«Compiti?» ripeto confusa.

«Va' a farli.»

Guardo entrambi, incerta. Non credo che mio padre abbia problemi di soldi, ha pagato le spese per le cure di mia madre e ha i migliori medici privati di Seattle, o almeno non darebbe mai a vedere a qualcuno i suoi problemi. L'altro uomo è completamente rilassato, schiocca piano la lingua mentre gli passo accanto e zampetto via, afferrando il mio zaino viola da terra.

«È stato un vero piacere rivederti, Sasha» continua, abbassando di un'ottava la voce.

Sfodero il mio miglior sorriso finto. A questo punto non me ne frega più molto. «Oh, anche a me!» esclamo. «Vi lascio fare le vostre cose da... uomini.»

Mi siedo sulle scale e aspetto che mio padre tolga dalla mia vista Samuel, il quale si è inchiodato nel soggiorno a fissarsi intorno. Il termine "mosca bianca" non mi è parso mai più azzeccato. Dopo essersi chiusi entrambi nello studio non riesco ad ascoltare il discorso su cui incombe la discussione, però dal tono di mio padre non è di suo gradimento. Magari uno dei suoi clienti ha rinunciato a finanziare un progetto o ci sono dei problemi con la banca.

La leggenda di KiralDove le storie prendono vita. Scoprilo ora