1. AMOS

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Di tutte le cose che potevano capitarmi questa mattina, il fato ha deciso di appiopparmi la più stramba.

Sul serio, se mi avessero detto che sarei rimasto bloccato in ascensore ci avrei creduto, ma se avessero aggiunto che sarebbe successo con una svitata... ecco, a quello non avrei creduto.

Ci sono due guardie di sicurezza all'entrata, un portiere e una receptionist qualificata, di sicuro uno dei quattro si sarebbe reso conto di una stramba nel palazzo, no?

D'accordo, forse non è pazza, ma solo ansiosa, è solo che ha una strana reazione al panico. Non avevo mai visto nessuno diventare rosso come un pomodoro e poi iniziare a ridere. Di solito non si diventa bianchi come fantasmi? Non viene l'affanno? Chi lo sa, non mi sono mai ritrovato in una situazione del genere e non programmo di farlo.

La donna seduta di fronte a me mi osserva perplessa; le iridi azzurre mi scrutano attente mentre scosto la giacca e apro il primo bottone. Siamo in pieno gennaio, eppure qui dentro fa caldo. Devo aver chiesto a qualcuno di sistemare i riscaldamenti perché sono certo di essermi gelato il culo proprio la scorsa settimana.

I capelli ramati sono stretti in una coda alta, un tempo perfetta, adesso piccoli ciuffetti le si attaccano sulla fronte e si abbinano al viso rosso e sudato che si ritrova. Le mani sono eleganti, delicate, le dita affusolate.

Tenta in ogni modo di sistemarsi l'acconciatura, ma non c'è molto che possa fare.

Indossa una gonna azzurra, così come il blazer, tacchi color crema e una borsetta dello stesso colore. Elegante, senz'ombra di dubbio. Il punto è che non mi convince del tutto. Suppongo che scopriremo a breve cosa ne sarà della sua persona.

«Si descriva in tre parole e poi mi spieghi perché dovrei darle il posto» asserisco, distaccato.

La compostezza è fondamentale nel mio mondo, dunque, scrutare questa donna che sembra tutto fuorché quello... è destabilizzante. E a me non piace sentirmi così.

Iris Thomson senza la p si schiarisce la voce e sfrega una mano sulla coscia. «Vediamo... sono determinata, simpatica e, anche se non si direbbe, mantengo la calma in situazioni pericolose. Gli ascensori... sì, ecco, gli ascensori mi mettono molto a disagio. Sono claustrofobica.»

«Lo avevo intuito» ribatto, per niente sorpreso dalle sue parole. Era abbastanza palese che lo fosse. «Ha parlato di tre strutture durante il suo sproloquio. Ha fatto domanda altrove?»

«Oh, no, non per questo lavoro. Sono una fisioterapista. Ho lavorato presso una struttura sanitaria per due anni, ma hanno dovuto chiuderla e così ho fatto subito richiesta altrove. Al momento ho bisogno di un lavoro che mi tenga occupata e questo fa decisamente al caso mio» annuisce, convinta, la mano intenta a giocherellare con l'orlo della gonna che le arriva poco sopra il ginocchio.

«Ha avuto altre esperienze?»

«Sì, nel curriculum che ho in borsa potrà esaminare tutte le referenze e informarsi. Lavoro come babysitter da una vita e non ho mai avuto alcun problema.»

Massaggio il mento, riflettendoci su. «Colin ha solo quattro anni.»

Il nome di mio figlio sembra farla riscuotere ulteriormente dallo stato di ansia in cui si trova. Non ho improvvisato questo colloquio per distrarla dal pensiero di essere confinata in una scatola sospesa nel nulla, ho solo creduto che ottimizzare il tempo fosse una buona idea.

«Non è un problema. Ho badato a bambini di qualsiasi età» ribatte. «Persino più grandi» aggiunge.

Capisce subito che non avrebbe voluto dirlo dall'espressione scandalizzata che le si dipinge sul volto, ma immagino anche che sia tutto dovuto alla situazione in cui si ritrova perciò ignoro le sue parole e vado avanti. «Esaminerò il curriculum che ha portato e, se sono interessato, la richiamerò per fissare una prova. Colin è un bravo bambino, ma lei è un'estranea e voglio esserci la prima volta che verrete a contatto.»

«Mi sembra corretto. Allora... aspetterò la sua chiamata. Spero tanto che valuti davvero di darmi una possibilità, adoro i bambini e trovo sempre il modo di risolvere qualsiasi genere di problema.»

«Tranne rimanere bloccata in un ascensore» affermo.

«Se dovesse succedere una cosa del genere troverei il modo di non fare la psicopatica, agiterei il bambino ed è un male» ribatte piccata. Ha la fronte aggrottata, sempre rossa, e la labbra arricciate, anch'esse dipinte di un rosso aranciato, simile ai capelli.

Se vedessi una donna come lei per strada di sicuro mi fermerei ad ammirarla; la sua bellezza è innegabile, peccato che di donne mozzafiato il mondo ne sia pieno e io non ho bisogno di una barbie per mio figlio.

Ciò di cui ho bisogno è andare al lavoro tranquillo, scappare di casa per una riunione improvvisa sapendo che Colin non è da solo, ma con qualcuno di cui ci fidiamo.

Certo, la fiducia è qualcosa che non concedo facilmente, bisogna guadagnarsela, e se la signorina Iris Thomson senza la p diventerà la babysitter di mio figlio... dovrà lavorare parecchio, soprattutto dopo lo spettacolino di oggi.

«Se dovessi iniziare a piangere» prende parola dopo qualche secondo di silenzio, «non è a causa sua. Restare chiusa in una scatola metallica mi fa andare fuori di testa.»

«Prenderò in considerazione anche questo aspetto» affermo. In realtà, la sto avvisando, cerco di farle capire che non migliora la situazione raccontandomi cose di questo tipo. Voglio dire, e se l'ascensore del palazzo si bloccasse e Colin iniziasse a piangere? Ha detto che in quel caso non perderebbe la calma, ma chi me lo garantisce?

Una piccola scossa attraversa l'ascensore, Iris Thomson stringe le mani in due piccoli pugni mentre strizza gli occhi e rilascia respiri tremolanti.

Dovrei rassicurarla, dirle che andrà tutto bene, ma non lo faccio. Deve imparare a capire che avere il controllo, soprattutto in situazioni come questa, è fondamentale. Farsi attanagliare dal panico e lasciare che le emozioni prendano il sopravvento è da stupidi.

Quindi anche tu eri uno stupido quando due anni fa Colin si è graffiato e hai dato di matto? O quando, sempre Colin, è quasi caduto dal letto a un anno?

Stringo la mascella, infervorandomi con la mia stessa coscienza.

È diverso. Colin era un neonato e io non stavo bene.

«Signor Wright, l'ascensore sta per ripartire.» La voce metallica di Joshua mi arriva alle orecchie.

Mi alzo e, visto che sono stato educato, porgo una mano alla donna che mi osserva dal basso. Mmh, almeno sembra essere tornata a respirare correttamente. Lei l'afferra, esitante, e mi rivolge un sorriso stretto.

Pigio il tasto del piano terra e l'osservo mentre si piazza di fronte allo specchio. Tira fuori un fazzolettino dalla borsa e lo tampona sulla fronte e il collo ancora arrossati, passa una mano sulla testa nel tentativo di lisciare i ciuffetti ribelli ma quando capisce che non c'è molto da fare, rilascia un sospiro e rinuncia.

Fruga dentro la borsa una seconda volta e mi porge due fogli. «Il curriculum. Trova pure il mio numero di telefono, l'indirizzo di casa e dei recapiti di riserva per qualsiasi evenienza.»

«Molto bene.» Le rivolgo un solo cenno col capo.

Le porte dell'ascensore si aprono poco dopo, alcune paia d'occhi che ci fissano sorpresi. Si aspettavano che fossi solo e, dato l'aspetto della signorina Thomson, so bene cosa staranno pensando.

Il punto è che se anche fosse, sarei libero di fare quello che mi pare nella mia azienda.

«Buona giornata» balbetta Iris Thomson senza la p, poi non perde ulteriore tempo: fugge verso l'uscita.

Fuori sta piovendo a dirotto e quando Iris Thomson senza la p se ne accorge... sbatte un tacco sul pavimento e muove le labbra, credo abbia appena imprecato.

Un motivo in più per non assumerla.

Tuttavia, mentre rientro in ascensore e osservo il riflesso delle porte chiudersi allo specchio, noto anche il leggero fremito del labbro superiore.

Mi osservo e aggrotto la fronte.

Non c'è modo che l'assuma.

𝐒𝐞𝐰𝐞𝐝 𝐇𝐞𝐚𝐫𝐭𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora