28. IRIS

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«Tocca un'altra goccia di champagne e ti sculaccio.»

Quasi non soffoco con la mia stessa saliva.

Sollevo il capo, con estrema lentezza, e incastro gli occhi a quelli dell'uomo che stasera ha deciso di essere più bello del solito.

La serata si è quasi conclusa, un paio di invitati hanno già lasciato la sala e a breve sono certa lo faremo anche noi. È stato divertente; abbiamo chiacchierato e mangiato, poi hanno annunciato l'enorme cifra raccolta e la meta per cui sarebbe partita Peace Corps, ossia il Ghana. Sarebbe bellissimo poter andare, un'esperienza che cambierebbe la vita. Tanti bambini, persone, non hanno la nostra fortuna e sarebbe un onore poter contribuire un minimo ad aiutarli.

Non sono ricca, nemmeno la mia famiglia lo era, eppure abbiamo sempre cercato di fare il possibile. Alla domenica, quando mamma andava a messa, lasciava sempre buste colme di vestiti che non usavamo più, alcuni persino nuovi, e quando la parrocchia che frequentava organizzava delle raccolte alimentari eravamo sempre in prima fila, pronti a raccogliere anche una sola confezione di cereali. Papà non era religioso, però credeva che fare del bene fosse la cosa giusta da portare avanti.

Dopo aver sbocconcellato qualcosa al buffet ed essermi scolata altri due bicchieri di champagne, Amos mi ha costretta a ballare. E così eccoci qui. Non sono affatto ubriaca, tre bicchieri di champagne consumati nell'arco di quattro ore sono praticamente svaniti, ho persino mangiato. Mi sento solo più rilassata e mi piace.

«Cos'è che fai tu?» Arcuo un sopracciglio, curiosa di capire se ho sentito bene o meno.

Non gli conviene affermare frasi del genere quando non penso ad altro che alle sue mani su di me, o meglio, sotto al vestito, più precisamente tra le gambe.

«Basta champagne» ripete.

«Altrimenti mi sculacci? Vorrei proprio vedertelo fare» sbuffo una risata. «E sto benissimo, non sono ubriaca o altro.»

«Lo so che non sei ubriaca, me ne sarei accorto. E non sfidarmi, Iris, non mi tiro mai indietro» sibila.

È troppo vicino, inizio a sentire molto caldo.

Sorrido, felina, e mi avvicino al suo orecchio, proprio come ha fatto lui tutta la sera. «Ti sfido» sussurro.

La stretta sui miei fianchi diventa ferrea, adesso non c'è più alcun centimetro a separare i nostri corpi. Vorrei ansimare, ma ci sono i suoi genitori da qualche parte e la sala è colma di suoi collaboratori, non potrei mai mettermi così tanto in imbarazzo.

Amos non risponde, afferra la mia mano e mi trascina fuori dalla pista, marciamo fino alle grandi porte e poi entriamo in ascensore. Ci sono due coppie insieme a noi, che ci rivolgono un saluto cortese, dunque sono costretta a nascondere l'espressione elettrizzata e a mantenere un certo decoro. Ci sistemiamo dietro di loro, spalle alla parete, mentre le coppiette chiacchierano della bella serata.

Sto fissando la nuca dell'uomo quando sento una mano sfiorare la mia gamba nuda, sotto allo spacco dell'abito. Stringo le labbra, costringendomi a mantenere una faccia calma, rilassata. La mano viaggia fino all'interno coscia, massaggiando la pelle bollente, sale fino all'anca destra e sfiora il tessuto sottile degli slip.

Mi azzardo a voltare il capo in direzione dell'uomo al mio fianco ma Amos risulta imperturbabile, osserva le porte dell'ascensore come se non mi avesse infilato una mano sotto al vestito.

Torno a guardare di fronte a me e schiarisco la voce, camuffando uno squittio di sorpresa, quando sento indice e medio strofinare sopra il tessuto degli slip. Oddio.

«Tutto bene, signorina?» domanda l'uomo davanti a me. Non c'è molto spazio per potersi muovere, perciò non si gira. Meglio. Molto, molto meglio.

«Sì, grazie. Solo... non mi piacciono molto gli spazi chiusi» rispondo, a fatica.

𝐒𝐞𝐰𝐞𝐝 𝐇𝐞𝐚𝐫𝐭𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora