8. AMOS

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L'entusiasmo percepito nella voce di mio figlio è l'unica ragione per cui ho deciso di dare il lavoro alla donna che reputo un problema.

Colin è stato allegro per tutto il tragitto e a quanto pare ha in programma di colorare una I per lei, come regalo. Non ha mai fatto un regalo a nessuna delle precedenti babysitter nei suoi quattro anni di vita. Certo, prima era troppo piccolo, ma ha da sempre avuto gente intorno e nessuna di loro ha mai ricevuto un pensiero da parte sua.

Mio figlio non è freddo, come me, è solo più attento, riflessivo e questo deriva da ciò che la vita ci ha gentilmente offerto.

E no, non mi riferisco al lusso in cui siamo entrambi nati.

Colin ha la strana capacità di capire quando le cose non vanno, quando c'è bisogno di fare silenzio e, soprattutto, rispetta gli spazi. Ci sono giornate in cui al lavoro è particolarmente pesante e non voglio rigettare tutto sulle spalle di mio figlio, quindi resto in ufficio fino a tardi e, quando torno a casa, lui non fa domande perché gli basta guardarmi in faccia per capire che è stata dura.

Tante volte questo aspetto del mio carattere mi ha fatto sentire in colpa. Voglio dire, è un bene che non voglia appesantirlo con il mio malumore, ma non lo è il fatto di dovergli stare lontano. Ha solo me e i nonni. Anche loro figure importanti, ma il padre sono io. È su di me che deve fare affidamento. Dopo aver fatto una doccia, filo in camera sua e gli leggo una fiaba della buonanotte per tentare di fare ammenda.

Fino a quattro anni fa non avevo una responsabilità così grande, non pensavo l'avrei mai avuta a dirla tutta, poi le cose sono cambiate ed è arrivato Colin. Se fino a poco tempo prima ero stato felice, soddisfatto dei miei traguardi, quando ho stretto Colin tra le braccia per la prima volta è stato come sperimentare una gioia bollente che si riversa tra le più piccole crepe del cuore e le risana con un battito di ciglia. Quelle del mio bambino. Mi ha guardato con quegli occhi grigi e curiosi, le mani minuscole strette in un pugno e poi... poi mi ha sorriso.

Ho pianto quel giorno.

Non lo avevo mai fatto prima di allora. Eppure, è stato un istinto, un gesto naturale che aveva bisogno di essere liberato.

Ho pianto una seconda volta in vita mia, dentro la camera da letto, alle due e dieci del pomeriggio.

Non l'ho più fatto da allora.

Imbottigliare i sentimenti, le sensazioni, è sempre stato più semplice che lasciarle andare per un tipo come me, niente sentimentalismi, piagnistei o dichiarazioni da dieci e lode. Preferisco i fatti alle parole. O meglio, preferivo. Adesso non mi tocca più nulla. L'unica cosa per cui vivo è Colin, a seguire il lavoro. Fine.

«Papà?»

Alzo gli occhi, posandoli sullo specchietto, dove incrocio lo sguardo di mio figlio. «Sì?»

«Manderai via Iris?» chiede.

Rilascio un piccolo sospiro e scuoto il capo. «No. Le ho offerto il lavoro. Mi sei sembrato contento e io desidero solo questo per te, Col.»

Colin mi sorride dal seggiolino. «Mi piace. È diversa dalle altre» afferma mentre dondola piano le gambe, lo sguardo rivolto verso il finestrino. Come ho già detto: riflessivo.

«Diversa in che senso?» Aggrotto la fronte.

«Lo so che la conosco da un giorno, però... è buona.»

A volte mi stupisco della maturità dei suoi discorsi. Ha quattro anni, ma riesce a comunicare spigliatamente. «Buona» ripeto le sue parole.

«Sì. Lei non mi sveglia scuotendomi.»

𝐒𝐞𝐰𝐞𝐝 𝐇𝐞𝐚𝐫𝐭𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora