2. AMOS

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«Colin, la colazione è pronta!» esclamo.

Perché ci mettono tanto? Doveva solo lavarlo e vestirlo, poi portarlo in cucina.

Massaggio le tempie; ho già la testa che scoppia e sono solo le otto del mattino. Devo ancora fare una doccia e scegliere il completo per la giornata. Iniziamo male, malissimo.

Il rumore di scarpe che zampettano sul pavimento fa passare in secondo piano il mal di testa, un piccolo sorriso si impadronisce del mio volto, così come ogni volta.

Il mio bambino corre nella mia direzione e, per quanto vorrei dirgli di rallentare, mi sposto per riuscire ad afferrarlo. Lo sollevo dal pavimento e me lo stringo al petto.

Gli passo una mano tra i capelli scuri, come i miei, e lascio un bacio sulla sua fronte. «Dov'è Marisol?»

Lui mi guarda, sorride e fa spallucce. Rivolge l'attenzione alle due automobiline sul ripiano dell'isola e poi la sposta su Winona, la nostra domestica e cuoca.

«Buongiorno, tesoro mio!» sorride la donna, prima di avvicinarsi e baciare Colin sulla guancia.

Winona è con noi da sempre, persino da prima che arrivasse Colin. L'ho ingaggiata a diciotto anni, quando ho preso il posto di papà alla Sewing Company e ho ricevuto il mio primo stipendio. Papà ha deciso di viaggiare nelle tre sedi che possediamo tra Seattle, New York e Los Angeles per accettarsi che il lavoro procedesse bene e, per nostra fortuna, è ancora così.

La Sewing Company, tra la produzione di tessuti per arredamento e imbarcazioni, fa parte dell'industria tessile da sempre, è un affare di famiglia che va a gonfie vele da prima che nascessi. Ha un nome per niente originale, certo, ma erano altri tempi e di sicuro non posso contestare le scelte dei miei bis-nonni.

Dirigo la società da dodici anni ormai e, seppure non mi occupi direttamente delle tre fasi di produzioni dei tessuti, mi piace girovagare per i settori e accettarmi che tutto proceda come deve. A volte avverto, altre preferisco presentarmi all'improvviso, così da cogliere i nostri dipendenti impreparati. O almeno, ci provo. Di tutte le volte che ho visitato i settori, nessuno si è mai infastidito o dimostrato spaventato.

Sono distaccato, lo ammetto, ma porto rispetto alle persone che lavorano per la nostra famiglia da anni.

«Papà, colazione» mi richiama Colin.

Giusto, la colazione.

Abbasso lo sguardo sui piedi scalzi di mio figlio e aggrotto la fronte. «Dove sono finiti i calzini e le scarpe?»

«Signor Wright, mi dispiace!» esclama affannata Marisol. «Ho fatto il possibile per fargliele indossare ma non ha voluto sentire ragioni.»

Questa è la terza babysitter che, in un modo o nell'altro, mando via. Colin è davvero un bambino tranquillo, ha tanti interessi e, anche se ogni tanto fa i capricci, è abbastanza ubbidiente. Il punto è che ha bisogno del suo tempo con gli estranei e mi rendo conto che incontrare tre donne diverse in cinque giorni non sia stato il massimo, ma non mi convince nessuno. Mi dispiace, ma nessuna sembra attirare la mia attenzione.

«Non fa niente. Prenda pure le sue cose e torni a casa, la prova si conclude qui» sospiro.

«Non se la prenda, cara, il signor Wright desidera solo il meglio per il suo bambino» aggiunge Winona.

«Va bene, io... mi dispiace. Ciao, Colin. Arrivederci» mormora la donna.

Di sicuro è combattiva. Non ci ha pensato nemmeno due volte a svignarsela.

«Chi è la prossima?» chiede Winona mentre aiuta Colin a mangiare.

«Non sono sicuro ci sia una prossima» ammetto.

Mi rivolge un'occhiata. «Ah, pensavo ne avessi quattro. Questa non era la terza?»

«Sì, ma—» mi fermo, riflettendo sulle sue parole. La numero quattro era sicuramente l'ultima delle opzioni, credevo avrei trovato una babysitter che mi convincesse abbastanza prima di arrivare a lei, però così non è stato.

Con un sospiro, lancio uno sguardo a Colin e sorrido. «Sono buoni i cereali di Win?»

Lui annuisce, la bocca piena di cereali e una goccia di latte all'angolo destro.

«Attento a non sporcarti, pasticcione» lo avviso, passandogli una mano tra i capelli. «Quando hai finito aspettami sul divano, mettiamo le scarpe e ti porto all'asilo.»

«Oggi coloriamo la lettera C!» esclama.

«C come Colin» sorrido. «Fai il bravo, faccio una doccia veloce e ti raggiungo. Non fare arrabbiare Winona.»

«Io non la faccio arrabbiare mai» ribatte Colin.

Sbuffo una risata e scuoto il capo. Certo, come no. Winona copia il mio gesto e mi riserva un sorriso. Le faccio un cenno e filo dritto in bagno.

Vivere in un attico ha i suoi vantaggi: come, ad esempio, fare la doccia mentre si ha una vista dello skyline di Seattle al mattino. Questo è uno dei miei momenti preferiti, insieme a quando torno dal lavoro e trovo Colin ad accogliermi e a quando mi metto a letto, pronto a leggere il romanzo della settimana.

Faccio una doccia veloce e scelgo uno dei miei completi più classici, un Armani nero. Lo indosso, aggiusto l'orologio al polso e raggiungo l'ufficio. Cammino fino alla scrivania e rovisto tra i documenti, recupero il foglio che mi interessava e copio il numero sul cellulare. L'istante successivo, avvio la chiamata e porto l'aggeggio all'orecchio. Sono le otto e venti e tra dieci minuti Colin deve essere a scuola, se non risponde adesso, ho chiuso.

«Pronto?» ansima una voce femminile.

Aggrotto la fronte, colto alla sprovvista. «Parlo con la signorina Thomson?»

«Sì? Chi la cerca?» domanda, un altro piccolo gemito.

«Sono Amos Wright.» Un tonfo mi arriva all'orecchio. «Pronto?»

«Sì, sì, ci sono! Mi scusi, stavo... seguendo la mia lezione mattutina di yoga. Senza successo, aggiungerei» borbotta.

Allontano il cellulare dall'orecchio e fisso lo schermo. Stava facendo yoga? Alle otto del mattino? «Quindi la disturbo» affermo uscendo dallo studio. Trovo subito Colin con lo sguardo, già pronto e con lo zainetto in spalla. Ringrazio Winona e lei mi sorride.

«Certo che no. Sono un tipo mattiniero. Mi dica pura, signor Wright.»

«La chiamo per il posto da babysitter» mi costringo a dire. «Possiamo fissare una prova questo pomeriggio.» Non aggiungo alcun "se è libera", "se possibile".

«Mi serviranno l'indirizzo e l'ora» ribatte.

«Le scrivo tutto su un messaggio. Colin, andiamo» richiamo mio figlio.

Colin mi raggiunge alla porta e ben presto entriamo in ascensore.

«Perfetto. Grazie dell'opportunità e a più tardi!»

«Arrivederci.» Attacco e infilo il cellulare nella tasca dei pantaloni, poi rivolgo l'attenzione al mio bambino. «Mi piacerebbe avere una bella C colorata di azzurro al ritorno, che ne dici?»

«Va bene! Non vedo l'ora di fartela vedere!» sorride entusiasta.

Ho solo bisogno di vedere questo bel sorriso per andare avanti, nient'altro.

Raggiungo l'auto e faccio salire Colin sul seggiolino, allaccio la sua cintura e chiudo lo sportello dopo avergli pizzicato il naso.

Sì, ho solo bisogno di lui.

𝐒𝐞𝐰𝐞𝐝 𝐇𝐞𝐚𝐫𝐭𝐬Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora