Capitolo Diciassette - La Cruda Verità

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Coltiva a batterie negli alveari di cemento
Siamo stati tutti selezionati accuratamente
Come natura crea
La legge poi distrugge
Dentro questo ciclo modificato geneticamente
Che vive la mia gente
In assoluta sincronia col mondo adiacente
Ma sempre fuori tempo guardare e non toccare
Però desiderare
Desiderate pure
Quartieri programmati programmat' pe' 'e reati
Quartieri programmati pe' gghi tutti carcerati
Famiglie cundannate assieme 'e carcerate
Famiglie cundannate a mantene' 'o carcere 'e stato

Cattivi Guagliuni - 99 Posse

Lasciare Adriano, quella mattina, era stato molto più difficile del previsto. Strinsi le mani sui manubri al pensiero della sera prima.

Era crollato ai miei piedi. Distrutto, spezzato.

Lo avevano ridotto a un involucro di dolore, quello intenso, vero che non ti lascia tregua.

Se suo padre non fosse stato già morto, sarei andata io personalmente a ucciderlo.

Serrai la mascella fino a farmi male. I miei pensieri erano sempre più violenti, dicevo che non ero come loro, ma avevo ucciso e facevo comunque pensieri del genere.

Nonostante avessi fatto una doccia, nella quale lui si era autoinvitato e io non avevo avuto nessuna voglia di buttarlo fuori, sentivo ancora il suo profumo speziato addosso. La mia droga, la mia cura.

Eravamo entrambi spezzati, in modo diverso, è vero, e lui lo era molto più di me, ma insieme forse potevamo cercare di ripararci a vicenda.

Lo avevo invitato a venire con me quella mattina, anche se era un grosso rischio, ma lasciarlo da solo faceva crescere un peso nel mio stomaco. Non volevo lasciarlo, volevo tenerlo stretto a me e scacciare tutti i suoi demoni.

Ma non aveva voluto, mi aveva detto che aveva da fare e poi io ero in buone mani.

Fermai la moto davanti un edificio alto più o meno tre piani, un po' fatiscente, le mura bianche imbrattate e scorticate, l'odore di sigarette impregnava l'aria e mi fece storcere il naso. Due porte a vetri invitavano ad entrare e sopra c'era una scritta in celeste "C.N.A. Centro Nuoto Antimafia".

Tolsi il casco e posai la moto nel posteggio apposito, accanto ad altri motorini che non erano tirati a lucido come la mia.

Mi guardai intorno, il sole era alto e colpiva la scritta come se volesse metterla in luce. Oltre le vetrate si potevano scorgere delle vasche e parecchio movimento.

Due ragazzi, potavano avere sui quindici, sedici anni, arrivarono su di un motorino sgangherato, la vernice rossa sbiadita, non indossavano il casco.

«Compà, smuoviti!» esclamò uno dei due, quello con i capelli scuri, scendendo dalla moto che ancora non si era fermata del tutto.

«Ma che minchia fai!» imprecò l'altro posteggiando il motorino.

L'amico lo ignorò incamminandosi verso l'edificio, ma quando mi vide si fermò e mi squadrò dalla testa ai piedi, prima fece la radiografia a me e poi alla mia moto, emettendo un lungo fischio.

«Metti la catena, bellezza» mi disse strascicando le parole, indicando la moto con un segno del mento.

Alzai un sopracciglio e rimasi in silenzio.

L'amico biondino arrivò e imprecò di nuovo vedendo la mia moto, poi mi guardò e sgranò gli occhi. «A vuai lassari ca?[1]» chiese come se fossi una pazza.

«Sì, c'è qualche problema?» il mio tono era stizzito, mi innervosiva questo parlare per sottintesi.

Alzarono entrambe le mani. «Per nuatri no, ma pi tia fuarsi[2]» continuò il primo. «Unné ditto ca a ritruavi.[3]»

SYS 3 - La società degli splendenti. Capitolo finaleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora