Ah Pa', ho fatto 'na cazzata (extra.1)

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Fatico a crederci

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Fatico a crederci.

È tutto un grande scherzo.

Questo è un incubo da cui presto mi sveglierò.

Continuo a salire le scale con queste uniche parole che mi rimbombano in testa.

Giulia mi ha lasciato.

E ancora una volta è tutta colpa mia.

«Oh no...». Queste le uniche parole di mio padre quando, appena apre la porta, guarda il mio viso gonfio per il pianto.

Mi abbraccia mostrandomi, come al solito, comprensione. Anche quando non me la merito.

«Cesare, sei tornato? Com'è andata?». Mia madre sbuca dal corridoio con i capelli ancora umidi dopo essersi fatta una doccia.

Scuoto la testa. «Mi ha lasciato».

«Amore...». Mio padre fa un passo indietro per lasciare spazio alla mamma di accogliermi e consolarmi. Mi aggrappo a lei inalando il suo profumo, forse più per dimenticare l'odore di lavanda che ho amato.

«Ho rovinato tutto, di nuovo», dico tra un singhiozzo e l'altro.

«Cesare». Mio padre mi richiama costringendomi a fronteggiarlo, entrambe le mani poggiate sulle mie spalle. «Hai sbagliato, Cesare, e non serve negarlo. Ma non è questo che decide chi sei. Guardami: adesso impari, ti rialzi e rimedia come un uomo».

Con gli occhi colmi di lacrime riesco a malapena a distinguere quelli scuri di mio padre, ma non mi serve vederlo chiaramente per sapere che ha su quello sguardo. Lo stesso che aveva in ospedale dopo l'incidente di Flaminia.

«Credevo... credevo che avremmo sistemato tutto», cerco di giustificarmi.

«Sappiamo che le vuoi bene, ma adesso devi calmarti e cercare di rispettare quello che lei vuole. So che la situazione non è delle migliori... frequentate anche la stessa scuola... ma vedi, anche questo è imparare», mi incoraggia mia madre accarezzandomi dolcemente una guancia.

«Ho fatto 'na cazzata. Flaminia... è tut-to così complicato». Il petto mi si stringe, il fiato mi lascia, fatico a respirare e le lacrime non si fermano.

Sto avendo un attacco di panico.
Davanti ai miei genitori.

«Cesare, guardami. , respira». Il volto di mio padre si avvicina al mio viso, mentre mamma comincia ad accarezzarmi la schiena.

Cerco di focalizzarmi sui suoi occhi, sul mio respiro.

Mi torna in mente il volto di Giulia.

«Non smettere di respirare».

E il ricordo di quelle parole così giuste basta a calmarmi.

E lo faccio. Piano, ma lo faccio. Mi massaggio il petto e torno finalmente a respirare, anche se l'unico ossigeno di cui avrei bisogno mi ha lasciato per sempre.

Per sempre...

Sarà davvero così?
Non abbiamo più alcuna speranza?

Non voglio crederci.
Non posso.

«Perché non ti riposi un po'?», mi suggerisce mia madre.

Annuisco e, a passo pesante, mi dirigo verso la mia camera.

Mi butto a peso morto sul letto, le lacrime che bagnano le lenzuola profumate.

Subito tutti i momenti con lei mi travolgono come un'onda che non lascia scampo, destinati a rimanere lì, fermi nella mia mente come un'àncora pesante. Un'àncora che mi trascina giù, dove manca l'aria, dove l'unico nome che riesco ancora a pronunciare è il suo.

Il suono del clacson della mia Vespa quel pomeriggio in cui ho rischiato di investirla. Il suo viso furioso. La sua voce quando mi ha chiamato Azzurro per la prima volta. Il bigliettino che le ho scritto e infilato nella tasca dei pantaloni di nascosto.

Il suo sorriso storto quando cercava di non ridere alle mie battute, per non darmi la soddisfazione di farle ammettere che dietro quel suo «non ti sopporto» si celava dell'affetto vero, dell'amore. Ed era solo per me.

Il suo costume da Regina George ad Halloween. Le luci della discoteca che sembravano voler illuminare solo lei, come se il mondo intero l'avesse riconosciuta come qualcosa di raro, fragile, perfetto.

Il rossore sulle guance quando le ho dedicato un goal. Quando le ho dato il primo bacio sulla guancia.

La gita a Firenze. "La Primavera" di Botticelli. La mia primavera.

La mia Giulietta... e io il suo Romeo. La luce del lampione che la illuminava quando mi sono presentato sotto il suo balcone senza alcun preavviso. Il suo ridicolo pigiama con gli orsi.

La prima pizza mangiata insieme.

Il primo bacio.

Quando abbiamo fatto l'amore per la prima volta. Quando le nostre anime si sono ricongiunte dopo una corsa infinita l'una verso l'altra, anche se quella di Giulia è sempre stata la più timorosa. La più fragile. Quella che aveva più bisogno di essere tenuta stretta.

Le sue lacrime quando credeva di avermi perso per sempre.

Il tatuaggio...
Mi tocco il petto, all'altezza del cuore, sicuro che quelle parole: Ti dedico tutta Roma, rimarranno lì per sempre, scolpite nel mio cuore, nella mia anima.

Il nome di un'unica città, Roma, per sempre dedicata a lei.

E tutto questo... tutto quello che abbiamo costruito, tutto quello che siamo stati...

Perso. Distrutto da una bugia.

Il cuore di Giulia era già fragile, delicato, ferito, tenuto insieme da poche toppe che avevo promesso di cucire sulle crepe ancora fresche, ancora visibili.

E ho fallito.

L'ho rotta di nuovo.

E mi odio per questo.
Mi odio.

E mentre chiudo gli occhi, con il viso affondato nel cuscino, realizzo la verità più dolorosa: non so se un giorno smetterà di farmi male il fatto Giulia ha scelto un mondo in cui io non ci sono.

In cui Giulia e Cesare non esistono più.

Ti dedico tutta RomaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora