Prologo: la spedizione

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Finalmente, era scesa un po' di pioggia.

Nuvole grigie indugiavano ancora nelle vicinanze, oscurando pianure vastissime e ampi tratti di mare; i venti le stavano conducendo lontano e presto sarebbero scomparse, ma, di certo, non avrebbero stornato gli interminabili mesi ardenti.

Quella notte il freddo s'era accucciato fra le verdi chiome delle alture, l'affannosa brezza marina aveva perso il suo odore salmastro, e come rinata andava ora a rinfrancare la gente e a cullare i pochi fiori rimasti nei prati, ricordando a tutti, malgrado l'afa, che l'autunno esisteva ancora.

Gli alberi smeraldini punteggiavano i colli e si arrampicavano sull'altipiano circondato da solenni vette, aggrappandosi a esse come per trattenerle, i rami volti all'indietro. Il piccolo pianoro sembrava isolarsi dal resto dell'ambiente, spezzando la catena dei monti sovrastanti e verdeggiando all'ombra di essi, come un continente in viaggio verso il cielo avvinghiato dalle grinfie della terra.

E tra quegli artigli, su quello stesso altipiano, ammirando la vastità di una veduta fiabesca, se ne stava, in silenzio, arroccato un castello. Ergendosi dal nulla della breve pianura, quasi scolpito nella natura stessa, sfiorava le nubi e salutava i rapaci.

Ma più che un castello pareva un enorme torrione, coi suoi quattro pinnacoli, le sue insegne color del sangue e le alte merlature a circondare l'ampio terrazzo. Alcune delle feritoie, strette, erano inutili per introdurvi le artiglierie, le balestre e gli archi: ci sarebbe stato troppo poco spazio per gli eventuali assediati. Le restanti aperture ostentavano invece grandiose logge a mezz'aria, esibendosi in porticati sorretti da deliziose colonne, che eleganti reggevano le arcate a tutto sesto sulle quali poggiavano tettoie di pietra azzurra.

Ciascuna delle quattro facciate s'innalzava per quasi novanta metri e filava dritta per almeno cinquanta, quando voltava l'angolo e proseguiva, senza interrompersi, a formare un quadrato. L'impressionante mole della rocca troneggiava su due precipizi: quello alle sue spalle si gettava in una valle ombrosa, quello davanti in una miriade di colline lussureggianti a cui il castello esibiva lo stemma del regno, scolpito nella pietra sopra il balcone centrale.

Il breve tavolato che si estendeva attorno al forte si affacciava sui colli circostanti. Lì, sfiorati dalla rugiada mattutina, le coperture delle case coloravano il paesaggio; laccate di rosso, riflettevano il sole nascente. Ogni abitazione si abbarbicava sulla propria collina e sfiorava con le grondaie i comignoli vicini. L'insieme delle dimore andava come a comporre un esercito di uomini dall'elmo cremisi asserragliato sui fianchi morbidi delle alture. Più si scendeva, più gli edifici aggiungevano spazio tra di loro, come avide mani che prima rubano e poi rendono.

Anche i sentieri, tutti confluenti al castello, si andavano allargando e si snodavano tra le case e tra gli alberi carichi di brina. Si facevano strada sotto gli sguardi dei monti, scendevano a valle attraversando i dolci rilievi verdeggianti e giungevano dove la pianura era divisa dalle colture in triangoli e rettangoli, cerchi e rombi, geometrie perfette all'occhio umano.

Isolati cannoni erano sparsi per le strade. Avevano un affusto piuttosto singolare, generalmente di forma quadrata e ben piantato a terra, e una canna non troppo lunga, sui tre metri. Abili artigiani li avevano rivestiti in marmo armonizzandone i contorni con bande d'oro, come se non fossero stati fatti per la guerra, ma per semplice testimonianza di un potenziale pericolo.

Possenti mura di cinta racchiudevano l'abitato, poste a poche miglia di distanza dalle stradine di periferia. Come tanti giganti dorati, si avvicinavano al cielo per decine e decine di metri, ricordando vagamente infinite cataste di lingotti aurei.

La città prendeva il nome di Umek, la capitale dell'omonimo regno. L'armonia trasudava da quelle colline e da quegli alberi, l'eterno segno di una pace che durava da molto.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora