Capitolo XXVIII - Il valore del rimanere

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Passarono la notte e la mattina seguente a raccattare tavole incendiate, e impiegarono diversi giorni per iniziare la ricostruzione.

Mentre s'affaccendavano trascinando i morti e le assi nuove verso il cimitero, alcuni dei Barbari lavoravano con in testa le immagini rinnovate dell'assalto dei Norem, del fuoco sull'oceano scuro, del combattimento senza vincitori. Eppure fu presto evidente che Skull e i suoi militari non dovevano essere implicati nella faccenda. Quegli uomini neri che sbracciavano tra il fuoco a nessuno erano parsi Norem, anche se Zurbak, con la faccia scottata mentre andava in giro, manteneva i suoi dubbi sugli allevatori. Faceva notare che li avevano scorti da lontano, che indossavano strambe vesti e rilucevano a tratti come coperti di gemme.

A Emeron si attribuiva agli antichi abitanti dell'isola qualsiasi cosa fuori del normale, perché dai tempi delle spedizioni di Therolg essi erano giudicati come diversi e strani, nonostante pochi potevano dire d'aver visto uno dei vecchi indigeni da vicino. In tutto il regno era da anni morta la maggior parte dei soldati dei passati condottieri e sovrani, gli unici ad avere guardato negli occhi di coloro ai quali avevano tolto il diritto di avere una terra. D'altra parte nessuno dei Barbari, eccetto Gràen, aveva davvero visto, anche da lontano, un allevatore, però il capitano non era potuto accorrere allo scoppio dei primi incendi misteriosi.

Così i dubbi, le prime paure serpeggiavano nell'aria affranta del cimitero, dove i Barbari di Calidan si radunavano a piangere gli amici, a lacerarsi il cuore nell'odore acre dei pini.

Per non affaticare i graffi più profondi, la mattina e il pomeriggio Gràen riposava un poco nella casa di legno, approfittando di quei momenti per riflettere. Appena aveva letto gli appunti di Fimburl sull'avvenimento, s'era messo le mani tra i capelli gialli, quasi a volerseli strappare, ma il giovane scrittore gli aveva ricordato che avrebbero trovato una soluzione a tutto. Com'era evidente nessuno, su due piedi, sarebbe riuscito a spiegare con prove certe quei due fulmini azzurri piovuti dal cielo. Una delle folgori era proprio calata sulla testa di un Barbaro, e un globo di fuoco era apparso dal buio come scagliato da un dio.

Molti avrebbero voluto sapere la sorgente della malefatta anche se terribile, ma pure le ipotesi stentavano a farsi strada nelle menti confuse. Si poteva dire si fossero infine abituati al peggio, ma non era vero. Soltanto Zurbak invocava l'aiuto del tempo, come a farlo scorrere più di fretta, affinché quegli improbabili salvatori della monarchia di Vargan s'avvezzassero agli eventi più strani, ma nemmeno il custode, in cuor suo, riusciva a darsi pace davanti agli ultimi accadimenti.

Un'ora prima del tramonto, passati due giorni dall'attacco, Gràen si alzò dal letto per farsi un giro sulla spiaggia.

Si stiracchiò e si mise a sedere sul bordo del suo giaciglio, inspirando ed espirando con calma l'aria, gli occhi socchiusi.

Ogni sortita all'esterno lo riempiva di nuove domande, e se guardava il mare pensava a Calidan che l'aveva tradito, e se volgeva lo sguardo agli alberi la sua mente correva su per le colline di Hok, dentro alle mura gremite di fuochi. Pensava poi al custode sulla via di riprendersi, il quale gli aveva confessato di voler essere in forma per tentare il colpo, così vedeva l'ombra della ruberia scendere sui suoi Barbari imminente. Gli veniva nella testa l'idea di dovere andare a passeggiare in mezzo a un branco di criminali, di assassini, ma poi si ricordava di avere intorno a sé i migliori di Umek.

Alzatosi, batté i sandali sul pavimento di legno. Andò all'attaccapanni, e tutto parlava di Borin. Il prezioso mobile era stato ricavato dall'artigiano nelle ore di posa tra una forgiatura e l'altra delle armi commissionate da Rèkon. Intagliato nel tronco d'un pino, aveva quattro braccia ondulate e dalla giuntura dei quattro arti sbucava il castello di Umek, ricavato nel legno, come fosse la testa dell'appendiabiti. Borin aveva aggiunto una cinghia alla guaina della spada del comandante per poterla appendere, insomma per potere sfruttare il manufatto del vecchio anche per attaccarvi la spada nuova, più leggera, più svelta.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora