Capitolo XXXVIII - Incontri notturni

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Doveva essere l'alba del settimo giorno d'appostamento.

Dopo che Rèkon aveva decapitato lo stregone, guardando gli altri due assalitori correre sulla spiaggia, Oldor li aveva seguiti insieme a un compagno poco arrendevole, e il suo desiderio, condiviso anche da Gràen, era di scoprire da dove venissero quei nemici formidabili. Se i Barbari sapevano di poter trovare a Hok migliaia di Norem, non avevano alcuna idea sulla provenienza delle figure ammantate. I guerrieri di Calidan erano entrati in contatto con loro sempre al calar delle tenebre, forse a eccezione di Gràen, il quale aveva da poco scoperto, per così dire, di averli incontrati alle miniere. Essi attaccavano di notte, sguainando armi soprannaturali e terribili, lanciando globi di fuoco e fulmini nell'oscurità. I Barbari non comprendevano il movente di quegli attacchi, perché in nessun modo ritenevano di essersi messi nelle condizioni di disturbarli o di attirare le loro ire.

Nonostante la stanchezza accumulata nella notte, a Oldor non dispiaceva essere sveglio già alle prime luci del giorno, però si sarebbe volentieri rifiutato di alzarsi. Da quando gli stregoni si erano accampati tra le rovine degli allevatori, qualche giorno prima, le aurore e i tramonti, i crepuscoli e i giochi del sole nel cielo si susseguivano identici agli occhi del guerriero. Sorgeva l'alba, ma egli non assisteva mai alla luce aranciata che filtrava tra le fronde. Poi, di sera, le ombre si facevano incombenti sullo spiazzo di ossservazione al limite tra gli alberi e la pianura, e le pietre in riva al fiume si tingevano di nero, rischiarate dalle stelle dell'universo. Il focolare dei nemici pure illuminava accogliente le rovine assalite dagli sterpi. Grazie al cannocchiale, Oldor ormai sapeva come i maghi accendessero la legna, cioè distribuendo fiammelle sui ceppi con le dita delle mani.

Ricordandosi allora di quanto inutile sarebbe stato il giorno imminente, Oldor si ribadì la volontà di non alzarsi. Ma subito cambiò idea, ricordandosi di aver perso la guerra con il mal di stomaco.

Stravaccato a pancia in aria, con le braccia aperte come se l'avessero colpito al petto con un dardo, il guerriero alla fine aprì gli occhi. Si lamentò mugugnando un dissenso nella bocca, mentre cambiava posizione. Lentamente, si portò una mano sulla faccia e se l'appoggiò sulle palpebre, peché il sole era intenso anche dopo che aveva richiuso gli occhi azzurri.

Aveva fame da mezz'ora, ed eroicamente era rimasto sdraiato fino al limite della sopportazione. Ma adesso non ce la faceva più.

Per alzarsi, tastò il terreno erboso tutt'intorno a sé. Come un fulmine ritrasse la mano, al tocco di qualcosa che bruciava. Portò le dita scottate alle labbra, come per verificarne lo stato, toccandosi poi la guancia con la punta dell'indice e del medio. Il polpastrello pareva essersi rigonfiato un poco ed era caldo, all'apparenza più liscio del solito ma meno sensibile. Continuando a sfiorarsi la gota quasi si pettinava i peli ispidi e biondi della barba, i quali punzecchiavano il punto dolente del dito. Alla fine lasciò cadere la manona sul terreno e si sollevò a sedere con gli occhi stretti per la luce. Abbassò il capo come per guardarsi in grembo, mentre il sole lo riscaldava e gli scioglieva addosso il freddo della notte. Guardò alla sua destra e capì che cosa lo aveva scottato, cioè il bastone annerito che aveva usato contro gli sdejkein.

Sebbene Oldor fosse accampato al limite della Foresta dello Squalo, in una zona poco cara agli arbusti, più volte i piccoli predatori dagli occhi viola lo avevano attaccato, incuranti pure della sua mole considerevole. Entrambi gli assalti erano però avvenuti a notte fonda, costringendo Oldor ad accendere una torcia per difendersi, e forse, anzi sicuramente, gli stregoni non se n'erano accorti né potevano figurarsi d'essere sorvegliati.

Il guerriero scoccò uno sguardo fra gli alberi, verso il punto da cui erano sbucati gli sdejkein. Tirò su con il naso, aprendo di più gli occhi e si schiarì la voce. Gattonando si portò vicino a un gruppetto di pietre, dove conservava la sua scorta di bacche e fiori commestibili. Con le dita grosse strappò i petali dal capolino e li gettò insieme ad alcune bacche in una ciotola. Il contenitore era costruito con rametti intrecciati del sottobosco ed era tenuto malamente insieme con dei lacci d'erba. Prese a mangiare quella stramba insalata, impastandosi la bocca mentre teneva gli occhi fissi sulla ciotola artigianale, guardandola nelle sue semplici complessità. Masticava come un ruminante e si ricordò di quando, per la prima volta, ne aveva costruita una.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora