Capitolo XXX - Scelte difficili

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Continuarono quelle parole a scuotergli la mente, a rimbombargli dentro la testa. Echeggiavano nel corridoio illuminato dalle torce sulle pareti, avvolgendo il silenzio per andarsi a perdere nel buio in fondo.

Calidan guardava la statua di Argamek, e pendeva dai suoi occhi come a pregarla di fargli un cenno rivelatore.

La scultura in pietra bianca, tortora, superava i cinque metri d'altezza. Era seduta ma in procinto quasi d'alzarsi, e guardava in basso di lato, verso Calidan, con il marmo corrucciato a disegnare le rughe della fronte sovrappensiero. Da sotto la corona, la chioma spettinata dava prova dell'arte di assottigliare la pietra. Dei ciuffi di marmo pendevano sul naso inclinato, le guance scavate erano glabre e smunte, gli zigomi alti. La mano destra graffiava il labbro come per cercare una soluzione sfuggente, la sinistra s'intravedeva tra le pieghe abbondanti del mantello, stringendo la chiave appesa alla cintura, così come Argamek aveva voluto farsi ritrarre.

Quello del diciannovesimo re di Umek era stato un regno di pace che aveva nascosto il tormento interiore del suo reggente, la verità con la quale Argamek si era confrontato.

Calidan, con gli occhi lucidi, ricambiava lo sguardo turbato della statua magnifica, piccolo al suo confronto, ma con un peso più grande sulle vecchie spalle.

Argamek pareva davvero davanti a lui, come tutti gli altri re lungo il corridoio, muti, zitti nei loro pensieri immortali. Con quel naso storto non era il più bello dei Barbari, ma in quella pietra, gelida, palpitava ancora la sua anima irrequieta e stanca.

Così Calidan mosse di nuovo il piede avanti, e con la mano grande toccò il suo predecessore, la sua gamba sotto il ginocchio piegato. Abbassò il capo, sospirò d'affanni, ma non volle abbandonarsi al pianto che gli serrava la gola. Con gli occhi carichi di rispetto guardava i sandali di Argamek. Sotto la poltrona su cui sedeva il re, sul piedistallo della statua, era scolpito un secchio con dentro una bottiglia. Calidan strinse la chiave adesso nella sua cintura. Piano abbandonò il contatto, fece scivolare via dalla gamba di Argamek la mano, le dita, le unghie consumate dalle stagioni passate, dal caldo orribile che finalmente aveva abbandonato il regno, quando un mese dopo la partenza della flotta era piovuto ancora, e la terra aveva ringraziato il cielo.

Il sovrano si passò quella stessa mano sotto al naso, e guardò un'ultima volta il suo mentore, chi lo aveva consegnato a decidere della sorte di tremila Barbari e sette inestimabili velieri, a mandare Gràen in pasto al mare, Hurgin, Rèkon, tutti gli altri.

«Sire... che faccio?» disse con un singhiozzo. «Li ho persi.»

S'incamminò verso la sua stanza, alzando i piedi a fatica come dodici anni prima aveva fatto Argamek su quello stesso pavimento. Si sentiva morire, e non aveva più a chi dare il regno.

Procedette lungo il corridoio fino a giungere alla statua di Ban, il primo re di Umek, colui che aveva vinto la guerra contro le altre città. Forse, si disse, sarebbe stato meglio rivolgersi a lui e non ad Argamek per quella situazione. Ma gli facevano male le gambe, era stato in piedi mezz'ora davanti al suo muto predecessore, e non poteva non riposare. Oltrepassò Ban, fiero con ai piedi le città di Umek in rovina, lo scettro nel pugno, la spada nel fodero di marmo, la chioma di pietra mossa dai venti insidiosi del trionfo militare.

Prima d'entrare nella piccola stanza, fermò il pugno chiuso sul maniglione d'argento. Da quando Argamek gliel'aveva lasciata, non era cambiato niente. C'erano più libri di geografia sparsi per terra, più mappe, più sospiri di strazio a pesare sullo scranno, ma vi imperava la stessa aria accogliente, elegante, buia, perché il sole non sbatteva mai diretto ai vetri del terrazzo, dove gli archi a tutto sesto e il parapetto si sporgevano sul pendio che scendeva nella valle e fino al porto scintillante di fiamme.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora