Capitolo XXIII - Melain?

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Lì il fiume curvava un poco. Scendendo alle spalle delle colline a ovest di Hok, il Dral si faceva più veloce e gorgogliava allegramente, per poi tornare a scorrere verso il nord di Emeron.

Ora Gràen poteva sentirlo, piano, nel mezzogiorno silente, spalmato sull'erba all'ombra di un alberello, perché alla fine un cinguettio l'aveva svegliato. Mosse un po' la testa per raccapezzarsi, ma non c'era vita nel raggio di miglia, eccetto il fastidioso pennuto carnefice dei suoi timpani. Si volle alzare, ma capì sarebbe stato difficile. Era sdraiato di pancia su un letto molle di terra, né le gambe né le braccia, le mani davano segno di esistere. Si spostò di un paio di centimetri dalla posizione in cui aveva iniziato la giornata, e un dolore alla spalla, che scendeva pulsando fin quasi al gomito, intorpidendogli l'arto, lo accolse di rimando. Pensò alla notte scorsa, ma fu solo un attimo abbagliante, tremendo e poi nulla, di nuovo quella pianura eterea suonò le campane del buongiorno, con rumore di foglie, uno svolazzare d'ali. Un puntino colorato schizzò per un secondo all'interno del suo campo visivo. Mugugnò, schiudendo le labbra riarse. Quando chiuse gli occhi per la troppa luce, con la mano sondò la zona circostante al suo corpo, battendo qui e là sul prato. A tratti l'erba era bagnata, e Gràen pensò di poterci ricavare un poco d'acqua. Si accorse della scarsa fattibilità della cosa e corrucciò la fronte in uno sforzo mentale, aggrottò il viso e un rivolo caldo di sangue si tuffò dalle labbra su un filo d'erba, annegando una formica. Un grillo lo scelse come trampolino e rimbalzò più volte sulla sua schiena liscia, ticchettando con le zampe pelose sulle ferite ormai chiuse degli sdejkein. Fu quell'insetto, le sue movenze caute a far svegliare del tutto Gràen. Si rivoltò e intravide il sole lampeggiare tra le foglie scintillanti. Per così dire sgranò gli occhi tutti incollati, abbagliato dall'evidenza, poi sconfortato. Si avvicinava infatti lo zenit dell'astro, l'ora di pranzo, ma specialmente il caldo che uccideva ogni traccia di rugiada.

Non si poteva dire fosse stato un bell'inizio.

Richiuse gli occhi, li riaprì, li socchiuse, li sgranò urlando per la sorpresa, e sollevò il torso a guardarsi la pancia: sugli addominali in tensione, c'era il khol di Zurbak.

Il rapace, responsabile della fuga del primo, piccolo volatile, aveva appena trovato la risposta all'interrogativo che lo aveva tormentato fin dall'alba: il comandante non era morto. Gràen tirò un sospiro di orrore nel mettere insieme i pezzi, e quasi scorse negli occhi del khol un dispiacere nascosto, una mestizia, una vergogna anche solo per averci sperato. Si guardò ancora la pancia violata dal pizzicotto di Rhudon. Con quel becco avrebbe potuto fargli molto più male.

«Ti sarebbe piaciuto?» gli chiese, più con la mente che a parole. «Forse... forse anche a me.»

Aveva archiviato l'inseguimento tra i vicoli di Hok come fosse accaduto da anni. Se la spalla avesse finito di fargli male, avrebbe potuto raccontato agli altri come un brutto sogno quasi senza accorgersene. Pensò agli altri, appunto. Doveva raggiungerli. Il custode aveva detto al khol di portarlo sulla spiaggia, forse. Non ricordava bene. Piano, si alzò, e Rhudon zampettò sul prato scrollando le piume verdi iridescenti. Il sottile tronco dell'albero in controluce gli impediva lo sguardo. Si mise una mano a protezione della fronte, dopo aver scelto con cautela il braccio sano. Fece due, tre metri a passo incerto, barcollando, mentre il rapace inclinava la testa per scorgerlo meglio dal basso. Quando Gràen ebbe superato l'albero, sforzò la vista per sondare il paesaggio. Alla sua destra iniziavano delle colline, e in alto la città sventurata si scorgeva appena. Guardando dritto, vide solo una distesa infinita solcata dal fiume, e forse delle grandi montagne più a nord, dove il troppo sole si mischiava alla foschia. Di certo non sarebbe tornato a Hok, nemmeno scortato da tutti i sostenitori di Vargan.

Rifletté un poco, perché quella landa era diversa da Umek. Le strade non correvano tra le valli, quell'unico fiume non era assalito dai pescatori e sul mare, invisibile da quel punto dell'isola, non un vascello andava bordeggiando con le bandiere issate. Allora pensò alla storia del vecchio re, e vide in quella natura una desolazione lussureggiante, un'assenza di uomini e creature incolmabile ai suoi occhi affamati di gente. Eppure in quel posto abitava un popolo, suddito di un regno invisibile, senza più mercanti a sbraitare il prezzo migliore, senza vita, senza cittadini. Dov'era tutto? Dalle finestre della città non aveva scorto altri abitati, solo il nero della notte ad assediare il castello fatiscente. Probabilmente c'era dell'altro, a nord, e un po' era ansioso di scoprirlo, nonostante tutto.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora