Sfuggenti serpi si agitavano nel sottobosco. Strambi versi di creature distraevano dal crosciare dei frangenti sulla sabbia. Grida poco intonate di uccelli sfioravano le altissime chiome dei pini, mentre una fredda brezza abbandonava la foresta, scrollando le piume degli elmi e agitando le bandiere. Più tardi, scivolando tra le foglie quel venticello tacque, lasciò l'isola e andò a infrangersi contro le vele di una flotta lontana.
Al limitare degli ultimi alberi, una sorta di piccolo avamposto in pietra si integrava all'ambiente. Due scalinate portavano alla cima del fortino da entrambi i lati, munite di grezzi corrimani in ferro battuto. Le rampe terminavano a un ballatoio sospeso sorretto dalle scalinate stesse. Due robusti cannoni miravano all'infinito, all'oceano che abbracciava l'orizzonte. Il marciapiede a mezz'aria era difeso da uno spesso parapetto di roccia, alto all'incirca un metro, su cui erano fissate le aste di due stendardi.
Le insegne erano a fondo verde scuro, con uno scudo del medesimo colore posto al centro, e all'interno di esso un piccolo triangolo rosso inglobato da un altro più grande e di colore grigio, entrambi trapassati da tre lance che inquadravano lo stemma. I margini interni dello scudo erano dentellati, stringendo i due triangoli in una morsa letale. Infine, dai lati estremi dell'emblema pendeva, al pari di una cascata, una decina di cenci sottilissimi, quasi fossero i capelli dello scudo stesso; in cima, una brocca color sabbia recava disegnata una cartina geografica.
Sull'avamposto due strane creature, due soldati, sedevano dirimpetto e con le spalle volte alla foresta.
Il loro aspetto era quello di un uomo slanciato e dal portamento fiero. Un uomo losco e grottescamente ripugnante. Erano due figure dall'aria sudicia e trasandata, forse abitanti di oscure caverne, le cui uniformi, in compenso, sembravano rimediare alle storpie parvenze.
Entrambe esibivano un colorito verdastro e avevano occhi astuti, piccoli e tendenti al giallo come scintille mortali. Due lunghi canini si affacciavano dagli angoli della bocca, l'assenza delle sopracciglia gli permetteva di scrutare senza tradire emozione; a sormontare gli occhietti stava infatti una serie di rughe che sopperivano allo scopo, così che lo sguardo appariva assorto e al medesimo tempo vago, perso in pensieri inconoscibili. Mostravano anche uno sdegno forzato accennato sulle labbra, ma non perché erano davvero malvagi, bensì per la paura che avevano il dovere d'incutere.
Armati alla leggera, indossavano un elmetto metallico piumato e una cotta di maglia sottilissima sopra una stola; lasciavano le gambe scoperte con una sorta di piastra metallica, ricoperta di piccoli spuntoni, a fungere da ginocchiello, perfetta per piegare in due l'avversario. Stivali di cuoio nero li proteggevano fin sotto la rotula. Non portavano guanti, per cui le venature delle mani erano visibilissime, piccole catene di monti in rilievo sulla pelle scabrosa.
Due foderi, contenenti delle spade lunghe, erano appoggiati al parapetto in pietra.
Una delle creature se ne stava a cavalcioni sulla balaustra rocciosa, reggeva nella mano destra un binocolo dorato mentre con l'altra stringeva un tozzo di pane, mordendolo avidamente con i denti affilati. L'altro soldato, dall'aria più composta, consumava un'invitante zuppa di fagioli, lo sguardo diretto in un punto lontano.
Un grande gabbiano si lasciò cadere sul parapetto per poi ruzzolare a terra, esausto. Il primo Norem scese dalla sua precaria postazione e sferrò un calcio allo sfortunato volatile, inveendogli contro: «Va' via, malnato uccellaccio!»
L'animale si scostò appena, raggiungendo il primo gradino della scala.
«É colpa sua se hai voluto barattare il pane con la mia zuppa? Lascialo riposare, non dà fastidio» prese le difese dell'animale l'altro, agitando in aria il cucchiaio.
Il suo timbro di voce era pulito e rilassato.
L'altra creatura sbraitò di dissenso. Il gabbiano si lanciò in avanti e solcò il cielo ad ali spiegate, svanendo oltre gli alberi. Il Norem grugnì come per approvare e prese parola con tono parecchio sgarbato:
STAI LEGGENDO
Nel nome di Calidan
FantasyL'intramontabile prosperità di Umek è compromessa da un autunno troppo caldo, mentre tutte le miniere d'oro sembrano essersi esaurite. Re Calidan, avvilito dal destino che si prospetta agli occhi della sua gente, è deciso a trovare una soluzione. C...