Capitolo XXII - Come si fa un Barbaro

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Ancora il sole non brillava nel cielo. Il rosso dell'alba sfumava le nuvole bianche sul filo dell'orizzonte, annunciando a passo tardo il giorno imminente. Così l'aurora dilagava nel blu che si faceva azzurro, punteggiato dai primi gabbiani insonni, e la sabbia si svestiva delle ombre dei pini corrucciati, colonne immobili al primo vento. La rugiada, nella foresta, cadendo percuoteva il sottobosco e gli insetti incominciavano presto a levare le antenne, ma già troppo in ritardo per chi quella notte non era riuscito a dormire.

Rèkon occupava la caserma in movimento, gli occhi distesi nel fresco dell'abitazione, le mani sul bastone. La sera prima la stanza era vuota, mentre adesso, tra i bagliori mattutini, dal buio sbucava un'impalcatura dalle sembianze umane, e una fornace di pietra impegnava il camino grigio. Altri due colpi sul ferro percossero il silenzio, poi un altro per raddrizzare una giuntura e l'opera poteva quasi dirsi completa. La luce della candela dell'artigiano fu spenta, poi Rèkon alzò le sue membra dalla seggiola, avanzando al cospetto del fantoccio. Entrò un Barbaro a svuotare un sacco di iuta colmo d'oro e uscendo si fece spazio tra il generale e Borin.

«È buona» commentò Borin.

In risposta, Rèkon grugnì per assentire e di nuovo osservò l'impalcatura, che era della sua altezza e raffigurava a grandi linee uno scheletro, ricavato con delle spranghe in metallo cucite insieme. Come un sarcofago, la primitiva rappresentazione poteva essere nascosta da un grande coperchio.

Nel mentre tornò il Barbaro di prima e consegnò al generale una copia del libro di Ràrek Storia di un popolo. Rèkon sistemò il volume vicino alla fornace e cercò nell'indice la pagina desiderata, sfogliando in fretta la carta fragile, tutta stropicciata per via dell'acqua assorbita. Per un secondo il generale stette fermo e si voltò indietro per scorgere meglio Borin, ancora in piedi nella stanza con il martello in mano.

«Che stai facendo?» sbottò. «Torna a fare le tue spade.»

«Se non ti dispiace voglio restare a guardare» spiegò il vecchio simpaticamente. «A Umek nessuno può entrare nelle caserme.»

«No.»

«Il generale di questa spedizione vuole dare la vita a un esercito di Barbari da solo?»

«Nel... libro è spiegato benissimo» si difese il condottiero, anche se non aveva idea di come avrebbe dovuto iniziare. «Tu ce la sai?»

«L'oro va nel forno, credo, e manca il sirion.»

«Bronn lo sta portando» borbottò Rèkon.

Si chinò per recuperare i lingotti d'oro. Prima di rialzarsi respirò profondamente e si diede aiuto col bastone. Accatastò i lingotti vicino al forno.

«Quindi ce la sai» ripropose, nella speranza di aver trovato una guida.

«No» lo spiazzò. «Forse Ulther potrebbe saperne di più degli altri, ma ciascuno di noi conosce le regole di Umek: solo i Maestri possono dare la vita, nel mese di Melain, e dopo che il re li ha autorizzati.»

«Qui non ci sono re» tuonò il generale. «Io vedo solo mostri.»

Entrò Ulther.

«Rèkon!» si arrabbiò.

Il sovrintendente, superando l'uscio, si chiuse la porta alle spalle.

«È l'unico modo.»

«Nessuno ha mai tentato una cosa del genere, Rèkon. Smonta tutto, perché non ne siamo in grado.»

«E chi te l'ha detto?» ringhiò il generale, avvicinandosi al nuovo arrivato.

«È così. Non è possibile decidere la sorte di qualcuno che non ti appartiene.»

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora