Capitolo XXXIII - Fuoco e folgori

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Gràen abbassò il binocolo, ma con gli occhi ancora guardava Hok in alto. Una cicatrice si dipinse nel cielo scuro, argentea, e scese fino a giungere sulla cima di una torre del castello.

Anche Rèkon strizzò gli occhi accecato, mentre i colli e le pianure e la foresta lontana biancicarono nel sordo rumore del tuono. Un altro lampo cadde sulla città e la notte parve rompersi sopra il campo di battaglia, soffocando le urla dei feriti ammucchiati.

«Zurbak... è morto, Rèkon.»

Il generale grugnì.

«Queste miniere fanno schifo» disse. «Sono più strette delle budella di una mosca, e non ci sono le reti per proteggerti la testa quando ti cadono addosso le pietre. Se metti un Barbaro a lavorare dentro a quel buco, si uccide prima di prendere in mano la piccozza.»

Gràen non rispose, ma pensò che l'amico, come qualunque altra creatura, fosse stato fortunato a nascere a Umek, dove i minatori da sempre facevano trainare i vagoni dalle bestie e non dovevano temere di morire schiacciati da un crollo sul lavoro.

Rèkon tornò con lo sguardo dov'erano apparsi i primi fulmini.

«Ci vedono?» domandò.

«Non lo so. Era una domanda da fare proprio a Zurbak... Ma abbiamo una collina davanti, forse non riescono a vedere tutto.»

«E se ci vedono?» incalzò l'amico.

«Se ci hanno scorti, allora stanno per venire qui con le armi.»

Rèkon rubò dalle mani di Gràen il binocolo e fermò un Barbaro, incaricandolo di scrutare con attenzione i movimenti della città.

«Se dobbiamo combattere, ci organizziamo e li mandiamo indietro.»

«Tu vorresti respingere i Norem con dodici Barbari?»

«E che vuoi fare? Ci arrendiamo?»

«Prendiamo l'oro e torniamo all'accampamento prima che ci raggiungano.»

«Ma dove l'hai trovato il coraggio di non farti ammazzare quando ti hanno dato la caccia là dentro?» si chiese il generale.

«Non era coraggio, ma desiderio di vivere e tornare da voi, Rèkon.»

Il compagno sbuffò.

«Tu sei bravo solo a scappare» lo accusò.

Gràen avrebbe voluto ribattere ancora. Sapeva di avere ragione, perché nessuno a giudicare dai volti stanchi era in grado o convinto di poter resistere a un altro scontro. Se per davvero i Norem avevano l'intenzione di attaccarli, nessuno ne sarebbe uscito vivo. Non venti ma cento e mille veterani, a un solo cenno di Skull, sarebbero così usciti dalle mura e li avrebbero uccisi tutti come galline inseguite in un recinto. A quelle constatazioni, Gràen liberò la mente per concentrarsi sul piano che gli era balenato in testa appena prima dell'uccisione del custode.

Guardò i minatori.

Erano ancora in fila come Rèkon li aveva lasciati. Si erano però un po' stretti tra di loro, per paura del temporale in arrivo, e guardavano la luna nascondersi dietro alle nuvole cariche d'acqua, immobili nella notte senza vento. Con le facce smunte e stralunate, gli abiti di stracci, le ossa sporgenti sotto al verde colorito della loro pelle, avevano le bocche secche aperte come giovani innocenti, animali appena venuti al mondo tra gli impeti di un uragano troppo inclemente.

Gràen si chiese se fossero capaci di parlare, altrimenti il suo piano sarebbe quasi stato irrealizzabile. Si mosse nella loro direzione mentre stillava dal cielo qualche goccia.

«Vi abbiamo salvati» disse.

Gli sarebbe piaciuto studiarli con attenzione, ma avevano fretta. Un lamento di strazio lo fece voltare. Uno dei feriti si avvinghiava con una mano al braccio di Oldor chino su di lui, urlando, sussultando. Un altro Barbaro gli era vicino, con bende inzuppate di sangue, nel tentativo di arginare l'emorragia. Due Barbari erano nel frattempo sistemati più lontano, perché non ce l'avevano fatta. Quando un guerriero si avvicinò a Oldor con una torcia, Gràen tornò sui volti dei minatori per non vedere il sangue della ferita gorgogliante illuminato dal rossore della fiamma.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora