Capitolo XXVI - Combattimento sul mare 1

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«Navi a poppa!» udì Dàrek una voce lontana, dalla coffa dell'albero di maestra dell'Anar.

Il Barbaro, il capitano di quella spedizione di ritorno, aveva gli occhi affondati nella palude di scartoffie sullo scranno.

Con la mano destra reggeva una carta su cui era il disegno di un Norem seminudo. Lo sguardo sondava il foglio che immortalava l'armamento dei mostri di Emeron, invece con la mente sovrapponeva le due immagini per ottenere un quadro più chiaro delle rappresentazioni.

Sulla scrivania c'era un bicchiere di legno vuoto, un sestante, dell'inchiostro, delle penne argentate e la lettera arrotolata di Fimburl per Calidan. Era una postazione sontuosa, degna d'un re magnifico, con la poltrona di pelle rossa dai braccioli intarsiati, ammorbiditi dal soffice tessuto su cui Dàrek poggiava i gomiti. Il piano di lavoro era tanto levigato da sembrare invaso dall'acqua, e mandava una lucentezza interrotta solo dagli oggetti sparsi qui e là. Un tappeto di porpora, steso sul parquet, dall'ingresso conduceva al cospetto dello scranno ai cui lati s'ergevano due candelieri spenti, perché la luce del meriggio che abbagliava i mari assaltava la stanza dalle aperture di cristallo, illuminando da ogni parte il locale. In fondo, in debole controluce, le vetrate della porta d'uscita raffiguravano i paesaggi di Umek di fronte allo sguardo arricciato di Darek.

Alle spalle della scrivania una scala imponente, di legno, conduceva sul cassero attraverso una botola. Intorno c'era un divano e qualche tavolo ornato con brocche d'acqua, per ricevere gli ospiti del capitano.

Nonostante lo sfarzo dilagante, Dàrek non aveva saputo cosa fare di quella stanza, e dunque l'aveva presa per lui come rifugio dal mormorio delle onde e le vele alzate e ammainate durante la traversata.

Ancora immerso nella consultazione delle carte, acuì l'orecchio, scrutando uno dei documenti e insieme stringendo gli occhi per cogliere il più flebile rumore. Udì sul ponte un rumorio crescente di voci, e si ricordò dell'annuncio della vedetta giunto a lui flebile. Ordinò i disegni, le lettere, le disposizioni sulla sua scrivania e si alzò in piedi, perché a breve sarebbero venuti a cercarlo. La lettera per Calidan volle conservarla in un cassetto, poi guardò dritto le vetrate davanti a lui e, constatando un silenzio ormai caduco, salì la scala e aprì la grande botola.

Nella stiva, dietro alle botti, aveva passato i giorni con la puzza di pesce nel naso. Ora udiva i Barbari agitarsi sopra di lui per qualcosa d'inaspettato e fremeva, pregava perché quello fosse l'insperato momento propizio. Non aveva un piano, non sapeva cosa stesse accadendo, era da solo e vecchio, come gli aveva detto il suo generale.

Le voci e il bagliore filtravano da una grata in alto calpestata dai sandali dei mozzi. Dopo qualche notte di digiuno, aveva trascorso il tempo in solitaria a cibarsi di anguille appena salate, e sapeva che quello non era il semplice passeggio d'abitudine. In trenta secondi erano passati sette Barbari, e solitamente in un minuto ne passavano al massimo dieci, cioè due in più dei guerrieri di turno sul ponte di coperta. Era inoltre un calpestio rapido, anomalo, e le voci cambiavano sempre. Qualcuno aveva urlato, ma le sue unghie sul legno della botte avevano coperto le parole. Per questo egli aveva rinunciato allo spuntino del pomeriggio, ma aveva fame e la fame divora la prontezza dei soldati. Così, rannicchiato come una bestia immonda, levò il braccio fino alla cima della sua botte, lo calò dentro e pescò il suo cibo puzzolente, crudo. Si aiutò con l'altra mano e portò alla bocca il pesce, l'agguantò coi denti sul dorso e strappò la carne, leccandola per meglio amalgamare il sale. Frantumò le spine più grandi tra la carne rossa dell'animale, graffiandosi le gengive come mai prima d'allora. A ogni morso il sangue si mescolava al cibo, ma ci aveva quasi fatto l'abitudine. Tra i barili, scomodo, pensò di slacciare la spada lunga dalla cintura, per muoversi meglio in quell'anfratto ripugnante. Come un selvaggio si tuffò con ferocia sulla sua preda, la decapitò con le dita sottili e mangiò la coda di quella serpe di mare, sputando saliva e sangue sul legno dei barili, grumi di pesce incommestibile. Si ficcò un'unghia in bocca per liberarsi dell'orrenda sensazione degli scarti tra i denti. L'alito gli puzzava di marcio, ma aveva imparato a non vomitare più.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora