Capitolo VIII - Incubo di fuoco 2

35 5 0
                                    

Una distesa di corpi punteggiava la spiaggia. I bracieri e i focolari erano stati distrutti dalle cannonate, ma le fiamme continuavano a bruciare nutrite dai resti dell'accampamento. Dai padiglioni stracciati comparivano ciocche di capelli biondi, braccia immobili, piedi e mani graffiate. Tutto era illuminato dalla calda luce dei fuochi.

Gràen aveva abbandonato il precario nascondiglio e di nuovo si guardava intorno. Guerrieri solitari vaneggiavano nello straniamento di quell'apocalisse e percorrevano, col capo chino, le strade che i cadaveri avevano tracciato. Alcuni si prostravano per accertarsi della morte di un amico, altri soccorrevano chi mai ce l'avrebbe fatta. E se un Norem tentava di rialzarsi, i Barbari lo stavano a guardare mentre sibilava parole incomprensibili, perché anch'egli, poco dopo, sarebbe stramazzato al suolo.

«Quei mostri non si arrendono!» echeggiò una voce roca, trasportata dalle colonne di fumo che oscuravano le stelle.

«Gràen, buongiorno!» disse Rèkon, e il comandante lo scorse, mentre correva e inciampava tra i cadaveri.

«È... uno scempio, un incubo.»

«È la verità, amico, altro che incubi!» lo ragguagliò il generale. «Voglio tutti i Barbari che sanno agitare un bastone o una spada.»

«Rèkon, ma...»

«Si sono radunati qui fuori con le spalle alla foresta. Sono più di cento, dobbiamo toglierceli dai piedi prima possibile... Li prendiamo a sorpresa e gli spezziamo il collo, hai capito?»

«D'accordo, come vuoi, ma io non...» balbettò il comandante; scosse il capo, chiuse gli occhi e li riaprì, rossi, lucidi, straziati. «Io non ce la faccio.»

Rèkon fissò l'amico in volto.

«Tu non mi servi.»

Superò Gràen con una falcata e, afferrandoli per le spalle, come in un buffo gioco, condusse tutti i superstiti in un unico punto. Poi si rivolse al comandante e gli disse: «Almeno preoccupati di soccorrerci quando quei cosi volanti ci infilzeranno.»

Il Barbaro deglutì.

«Andiamo» ordinò il generale, e tutti lo seguirono.

Gràen restò in compagnia dei rumori del mare. In lontananza, sulla spiaggia, dovevano ancora esserci dei Barbari. Si incamminò verso i pochi padiglioni rimasti fieramente in piedi.

Si avvicinò a una tenda e afferrò un lembo dell'ingresso. Con calma, delicato, lo scostò.

Gli occupanti non parlarono. Erano stretti gli uni agli altri, armati di spade e di bastoni, ma impotenti come pulcini che rabbrividiscono davanti a una gazza.

«Gràen» disse uno. «Cos'è successo?»

Il comandante respirò profondamente.

«Dobbiamo combattere. È necessario il supporto di tutti.»

«Io sono pronto» si fece avanti Hurgin.

Alzandosi, uscì dal padiglione e gettò sulla sabbia il bastone.

«Vado a prendere il mio grembiule e le mie scodelle. Combatterò da cuoco.»

Graèn si mise da parte e lo fece passare.

«Quelli della Gretah sono ancora... vivi?» azzardò un secondo guerriero.

«Rèkon è tornato a combattere pochi minuti fa. Per il resto, non ho notizie né voglia di andare a rovistare tra le rovine dell'accampamento» si fece forte il comandante.

Un brusio di sconforto scivolò tra i presenti.

«Gràen, sei qui!» si stupì una voce.

Il Barbaro si voltò e vide Ulther, coi suoi fogli immancabilmente alla mano, insieme ad altri cinque guerrieri.

Nel nome di CalidanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora