Gràen trasalì e aprì gli occhi.
Era adagiato su una branda di legno scricchiolante la cui superficie, scabra e dura, era attutita da stoffe biancastre. A fungere da cuscino, dietro la nuca del comandante, una federa strappata ricopriva un mucchietto di sabbia.
Lentamente, il capitano voltò il capo.
Si trovava nella tenda di qualche superstite e Ban, distante pochi metri dal frugale giaciglio, sedeva a uno scrittoio diroccato e lo fissava con aria smarrita, il braccio steso sulla superficie del tavolino. I riccioli biondastri e poco accentuati del giovane erano sudici e coperti di fuliggine. Lo sguardo da bambino, il naso all'insù e le minuscole labbra carnose parevano quelle di una statua malinconica. Un sommesso vociare indistinto permeava l'atmosfera immobile, più debole della risacca marina. I due si guardarono a lungo, poi Ban scoprì di stare al mondo. Sgranò gli occhioni celesti, si accorse del risveglio del comandante e alzandosi gli si fece vicino.
«Sei sveglio?»
«Ho... ho fatto un sogno.»
Il giovane Barbaro uscì di corsa, entusiasta.
Gràen aveva sognato. Non era un vero e proprio sogno, anzi non lo era affatto, perché era un vivido ricordo di svariati anni prima, un ricordo che Gràen stentava a elaborare. Non gli succedeva da almeno due lustri, e cioè da quando Rèkon, dopo quel combattimento, con un paio di denti in meno e il volto sfregiato, era andato a trovarlo al suo risveglio per stringere affabilmente un'amicizia.
La battaglia, come anche l'ambiguità degli ospitanti assaltatori, lo aveva distrutto. Non aveva trovato il tempo e il modo di riflettere sulle possibili soluzioni, e come sempre Rèkon aveva sfruttato l'occasione per darsi alle armi. Eppure anche il generale serviva il governo di Calidan, governo improntato sulla pace e la prosperità del regno, forse le sole cose che mai erano venute a mancare. Ora invece non c'era né l'una né l'altra. L'oro si era assurdamente prosciugato e i migliori Barbari di Umek si erano appena dati alla guerra, ma il capitano giurò a se stesso che in un modo o nell'altro avrebbe sciolto la matassa.
Ban rientrò. Tornò ad accostarsi alla branda e porse al compagno un boccale di sirion. Dapprima Gràen non sembrò considerarlo, in realtà stava solo riacchiappando le sue riflessioni.
Osservò il liquido. Certamente non era sirion di prima estrazione, perché i riflessi porpora stavano dando posto a quelli verdi, ma si sbrigò comunque a bere, senza staccare le labbra dal calice di legno. L'agrodolce sapore della bevanda gli rinfrescò il palato e corse a fluire nelle sue vene, lasciando dietro di sé un retrogusto frizzante a ribollire nell'alito amaro.
«Grazie» mormorò il comandante mentre si ergeva a sedere.
Stette immobile a percepire la stasi delle sue articolazioni, poi si stiracchiò in un debole scricchiolio d'ossa e sbadigliò sonoramente.
«Ho dormito molto?»
«Sì, più di un giorno» confermò l'altro. «Tra un po' Hurgin serve il pranzo.»
«Sai dirmi quante vittime ci sono state?»
«No» disse Ban, scuotendo il capo dispiaciuto.
«Come mai? Non hanno voluto dirtelo?»
Ban alzò le spalle.
Gràen lo fissò attentamente e aggiunse: «Hai dormito, Ban?»
Il Barbaro fece di no col capo.
«Mi hanno detto di restare sveglio e aspettare fino a quando tu non ti svegliavi.»
«E tu li hai ascoltati? Sei rimasto sveglio per un giorno a guardarmi dormire?»
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Nel nome di Calidan
FantasyL'intramontabile prosperità di Umek è compromessa da un autunno troppo caldo, mentre tutte le miniere d'oro sembrano essersi esaurite. Re Calidan, avvilito dal destino che si prospetta agli occhi della sua gente, è deciso a trovare una soluzione. C...