Prologo

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Undici anni prima

Continuavo a vedere poliziotti e medici entrare e uscire dalla porta di legno: era una porta scura di legno massiccio. Aveva parecchie serrature perchè mio padre temeva l'arrivo di qualche malintenzionato, o almeno lui mi aveva detto così, ma sapevo benissimo che era per via di mia madre e delle sue fobie. Lei aveva paura di tutto.

Continuai a singhiozzare in silenzio fissando i medici che portavano via mia madre su una barella.

Sentii in cortile l'auto di mio padre arrivare di tutta corsa. Volevo affacciarmi per vederlo, ma i miei piedi me lo impedivano. Ero paralizzata. Era già tanto se il mio cuore non si fosse fermato.

"Genesis! Genesis!"

Mi voltai.
Mio padre, pallido in viso, stava salendo le scale, tre gradini alla volta, con una velocità davvero impressionante.

Continuai a tremare fissando a terra, finché mio padre mi raggiunse.
Sentivo le gambe diventare molli come budini, come i budini che mia madre mi preparava, una volta, quando tornavo a casa dall'asilo.

Mi trovai faccia a faccia con lui: parecchie ciocche di capelli gli ricadevano sul volto, sconvolto tanto quanto il mio.

Mi aspettavo un suo abbraccio, un bacio, un modo di dirmi che andava tutto bene, quando in realtà non andava bene niente. Invece, reagì in un modo burrascoso tanto quanto un fulmine a ciel sereno.

"Mi spieghi che cosa successo? Ero al lavoro e mi è arrivata questa telefonta. Che cazzo è successo Genesis?!"

Sentivo il mio respiro diventarmi pesante. La testa mi girava come quando, da piccola, i miei genitori mi portavano sulle giostre, ma in quel momento volevo solo scendere. Scendere e andare sul prato e sdraiarmi.

Ci raggiunse un poliziotto.
"Signore, si calmi"

Mi padre lo guardò come se avesse appena bestemmiato durante una messa.
"Calmarmi? Me lo spiega come faccio a calmarmi? Non so nemmeno che cosa è successo!"

"Stiamo cercando di scoprirlo anche noi, signore. Stiamo cercando di farcelo dire da sua figlia, ma deve stare calmo" lo interruppe l'uomo.

Mio padre mi guardò. Sentivo il suo sguardo su di me penetrarmi le ossa. Uno sguardo gelido e tremendo, ma allo stesso tempo fragile come un lampadario di cristallo.

La mia testa non smetteva di girare nemmeno per un secondo.
Cercavo di trovare le forze dentro di me per restare in piedi, ma ormai erano tutte esaurite. Per un attimo vidi delle macchie nere offuscarmi la vista. L'oscurità mi avrebbe mangiata, o forse lo stava già facendo.

Cedetti per un attiamo alla mia forza di volontà e chiusi gli occhi, lasciandomi cadere.

Sentii le mani di mio padre e del poliziotto su di me. Mi portarono su una sedia.

Non capivo più niente, era tutto un disegno sbiadito.

"Genesis, cerca di riprenderti" disse mio padre. Una donna mi porse un bicchiere d'acqua. Ne bevvi un sorso.

"Ora dicci che cosa è successo, te la senti?" Mi chiese dolcemente l'uomo.

Annuii, anche se non ero del tutto convinta.

Cercavo le parole, ma esse morivano direttamente nella mia bocca.

"Forza Genesis, ti prego" mi supplicò mio padre.

Era un suo diritto saperlo.
Lui aveva sempre amato mia madre, anche negli ultimi anni, quando la depressione si era impadronita di lei.

"I-io" balbettai debolmente "non lo so che cosa è successo. Io l'ho vista poche ore fa andare in soffitta"
Dopo quelle poche frasi scoppiai in lacrime: era decisamente troppo per me.

Mio padre continuava a fissarmi sconvolto.

"Va bene, Genesis. Tranquilla" mi disse il poliziotto, "cerca di continuare. È importante"

Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nel palmo della mano.
Mi sforzai di trattenere le lacrime, anche se scoppiavano nei miei occhi.

"L'ho vista andare in soffitta con una corda. Le ho chiesto a che le servisse, ma non mi rispose. Io, io ho lasciato perdere. Dopo un'ora che non la vedevo andai a controllare. Lei era lì. Con la corda al collo, l'aveva legata a quella trave" dissi indicando una trave di legno sul soffitto "non avrei mai pensato che sarebbe finita così".

Mi fermai lì. Piansi ancora.
Non riuscivo a togliermi l'immagine di lei, con il suo maglione blu, a penzoloni e le sue ciabatte a terra. I suoi capelli rossi disordinati. Non riuscivo a togliermi l'immagine di lei con la corda al collo, come una delle collane che usava sempre quando andavamo a cena con papà o con mia nonna, quando ancora stava bene.
Ma ormai lei era morta. Ormai non avrei più potuto vederla.

Tutte le medicine e le cure si erano rivelate inutili. Soldi buttati al vento. Lei stava male e nessuno avrebbe potuto aiutarla.

"Sapevi benissimo che era depressa, Genesis! L'avevi vista con una corda andare in soffitta e non avevi detto nulla. Non sei più una bambina, perché non l'hai fermata?" Sbottò mio padre con le lacrime che gli rigavano il viso.

Se ne andò. Senza dire nulla. Senza salutarmi, come aveva fatto mia madre.

"Non è stata colpa tua" mi disse il poliziotto, per poi andare a cercare mio padre.

E invece sì, pensai. Era tutta colpa mia.

Agorafobia; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora