7. Mai un'altra volta

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7. Mai un'altra volta

La mattina appena mi svegliai non realizzai subito la ragione del mio nervosismo, ma pensandoci su mi ricordai di quel ragazzo, Justin.

Non riuscivo a smettere di pensarci.

C'era qualcosa in lui che non mi convinceva, anche se niente mai mi convinceva nelle persone.

Era tutto così strano, così assurdo.

Mi alzai dal letto sbuffando e con gli occhi ancora chiusi, cercando di riuscire ad infilare i piedi nelle pantofole.
Dopo essere andata in bagno per darmi una veloce sistemata, entrai nella camera di mio padre e, come ogni normalissimo giorno, lo svegliai.

Facemmo colazione e nessuno disse nulla. Come se niente fosse successo, come un normale padre fa colazione con una normale figlia in una normalissima mattina come tante. Solo che per noi non era così.
Nulla era più normale nelle nostre vite da anni interi.

Me ne stavo nella mia camera, seduta sul letto. Stavo immagiando mio padre mettersi la cravatta e la giacca, cosa che accadeva nella stanza accanto.

Nella nostra casa regnava un silenzio terrificante, mi faceva accapponare la pelle.

Mi tornò in mente che mencava poco all'arrivo di quel ragazzo.
Mi buttai sul letto e per un attimo sperai che le coperte mi inghiottissero una volta per tutte.

Sentii mio padre mettersi le scarpe, come facce sempre, prima la scarpa sinistra e poi la destra, seduto sul divano.
Immaginai già i suoi pensieri, i quali mi fecero davvero rabbrividire.

Perché non posso avere una figlia come tante altre? Pensava tra sé e sé, prima sua madre, ora lei.

Uscii dalla mia camera, lo guardai e i miei occhi si scontrarono con i suoi per un istante.
Mi appoggiai alla porta, i miei capelli rossi mi ricadevano sulle spalle ed erano tali e uguali a quelli di mia madre.

Il suono del campanello mi fece uscire dal mondo del senso di colpa, anche se solo per pochi istanti. Entrai però a far parte del mondo del nervosismo, della paura, del caos.

Mio padre andò ad aprire la porta. Essa non aveva lucchetti o serrature aggiuntive, come ne aveva l'altra nella vecchia casa. L'abbandono di mia madre aveva portato via con sé molte cose.

Rimasi lì in piedi. Ormai Justin era entrato e sia lui che mio padre avevano gli occhi puntati su di me.

Forse aspettavano un mio cenno, un mio sorriso, una mia parola, un mio movimento. Invece rimasi lì ferma, finché mio padre non ruppe il silenzio.

"Tornerò a casa alla stessa ora di sempre Gen, mi raccomando"

Il modo in cui lo disse non era altro che un rimprovero, mi ricordò di non essere acida nei confronti di Justin, ma per lui era facile.

Poi, si voltò verso il ragazzo.
"A dopo Justin"

Il giovane si limitò a sorridere e a fare un cenno con il capo.

Cara Genesis, pensai, ti aspetta una lunga, lunghissima giornata.

Continuavo a guardarmi i piedi, in quel momento ebbi l'assurda impressione che loro fossero l'unica cosa da guardare per non farmi sprofondare in un immenso e stupidissimo imbarazzo, o almeno non farmici sprofondare ancora di più.

Per una decina di secondi ci fu un silenzio da funerale, poi lui parlò.

"Visto che a quanto pare dovremo condividere gli stessi spazi per un po' di tempo che ne dici se ognuno di noi mette da parte l'orgoglio e ci comportiamo normalmente?"

Lo disse con una tale naturalezza che quasi mi lasciò senza parole.

'Condividere gli stessi spazi'.
'Mettere da parte l'orgoglio'.
'Comportarsi normalmente'.

Certamente non facevo i salti di gioia a condividere gli stessi spazi con lui e mettere da parte l'orgoglio per me era quasi impossibile. Continuavo ad essere della mia idea anche se sapevo che di essere nel torto più totale, sempre.
Forse lui non lo aveva notato, ma nella vita di mio padre, nel mio carattere, nella mia casa, nelle mie paure non c'era nulla di normale. In me non c'era più niente di normale se non dei frammenti che rimanevano del mio passato, della mia vecchia vita. Ormai niente era più normale in me e nella mia vita; era impossibile non notarlo.

Mi porse la mano, in segno di amicizia, credo.

Solo in quel momento mi accorsi del gran numero di tatuaggi che gli ricoprivano entrambe le braccia.

Ho sempre amato i tatuaggi. Segni, parole indelebili sulla tua pelle. Dimostrano quanto una cosa sia stata, o sia, importante della tua vita.
È come un segno indelebile su di te, per farti ricordare i tuoi momenti di gloria o delusione; è come un segno nel cuore e rimarrà con te, per sempre.

Nessuno lo sapeva, nemmeno mio padre, ma il giorno dopo che ebbi finito il liceo, mi feci un tatuaggio. Lo feci perché credevo ancora nelle mie potenzialità e credevo ancora nella libertà e nella ricerca della propria strada.
Mi tatuai la scritta 'la vita va vissuta' sul fianco, anche se alla fine non vissi mai la mia vita.

Strinsi la mano a Justin, lui sorrise, io rimasi a guardarlo.

Non sapevo bene perché lui mi desse tanto sui nervi. Forse non era nemmeno colpa sua, forse erano solo i miei assurdi pensieri.
Però, molto probabilmente, mi dava fastidio solo perché lo invidiavo, invidiavo la sua felicità.
Lui sembrava sempre così felice, o forse era solo come tutti gli altri, ma ai miei occhi visionari e pazzi sembrava così felice.

Lo guardai e notai i suoi capelli biondo cenere ricadergli su una parte del viso.
Le sue labbra carnose e rosee, gran parte del tempo pressate tra loro e infine i suoi pozzi color caramello. Tutti questi dettagli del suo volto mi dicevano così tante cose.

Mai un'altra volta, pensai tra me e me, mai più Genesis.

Eppure sarebbero passate molte altre volte, e io nemmeno me ne rendevo conto. Sarebbero passate così tante altre volte che ogni episodio avrebbe finito per portare via una parte di me, dandomi però qualcosa in cambio.

***

«Two years ago today in Jan, 23, 2014, Justin Bieber was in jail for DUI.
Today, he is atop the Billboard Hot 100.»

Ho voluto mettere quella foto all'inizio del capitolo perché credo voi sappiate cosa accadde il 23 gennaio di due anni fa.

Quando sentii per la prima volta la notizia del suo arresto, fui molto delusa, ma decisi di dargli una seconda possibilità: Justin è stato l'unico a darmi una seconda chance e allora io decisi di fare lo stesso.

Non credo di aver mai fatto scelta più giusta nella mia vita che dargli una seconda possibilità.

Agorafobia; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora