41. Il giardino di rose

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41. Il giardino di rose

Genesis

Sentii la macchina di mio padre percorrere la via. Non mi affacciai alla finestra: sapevo benissimo che era lui.
Chiusi gli occhi e lo immaginai chiudere la macchina, tirare un sospiro dopo aver affrontato una lunga giornata lavorativa. Lo immaginai intento a salire le scale, rimanendo in silenzio.

Udii i suoi passi pesanti fuori dalla porta e le chiavi entrare nella serratura. Si pulì le scarpe prima di venire dento casa con lo zerbino.

"Ciao Gen. Sono tornato" disse, come sempre.

Si tolse il cappotto e lo mise al suo posto.

"Ciao" risposi appoggiata al muro, con le mani in tasca.

Passò una mano tra i suoi capelli, ormai non più castani come un tempo e sorrise meccanicamente.

Andò in cucina e si versò un po' del suo vino preferito nel bicchiere e si sedette sul divano, come sempre.

Accese la televisiore e iniziò a guardare il solito telegiornale con la solita donna con i capelli biondi platino, vestita elegante e formale, con un sorriso falso dipinto in faccia. Era in piedi davanti ad uno schermo: c'era un grafico che rappresentava l'andatura dell'economia del Paese.
La donna sorrideva e parlava, spiegando agli spettatori in modo calmo e paziente.

Mentre la donna del telegiornale passò la linea ad un uomo fuori da un'arena, mentre mio padre beveva a piccoli sorsi il suo vino e mentre le lancette dell'orologio andavano avanti, io me ne stavo in silenzio.

Non avevo la più pallida idea di come iniziare.

Se mio padre si fosse soffermato anche un solo secondo su di me, avrebbe capito al volo che qualcosa non andava. Ma lui non era così, non lo era mai stato. Lui non era mai stato in grado di capirmi, anche perché non ci aveva mai provato.

Lui era un uomo d'ufficio e si soffermava solo su i numeri, su come fossero capaci le sue squadre sportive preferite e su quanto la sua giornata fosse uguale a quella precedente.

Mio padre non mi avrebbe mai capito: secondo lui tutto ciò che esisteva era materiale, ciò che non era visibile agli occhi non era un suo problema, classificato come qualcosa di futile. Viveva sul filo di ciò che si può toccare, ma quando arrivava a contatto con qualcosa più grande di lui chiudeva gli occhi ignorando la sua esistenza.

"Papà, dovrei parlarti un attimo"

Finì il suo vino e cambiò canale.
Sospirai cercando di non rimanerci troppo male. Nonostante mi ignorasse la maggior parte del tempo e nonostante ci fossi abituata, ogni volta faceva male.

Mi misi seduta accanto a lui e cominciai a parlare, nonostante balbettassi un po'.
"Oggi è stato un giorno un po' particolare per me"

Lui si voltò e finalmente mi prestò attenzione.

"È successa una cosa che, diciamo, mi ha colpito molto"

Iniziai a giocare con l'anello che avevo sul dito; me lo aveva regalato Justin un paio di mesi prima.

Mio padre si alzò. Dovevo dirglielo in fretta, doveva ascoltarmi.

"Sbrigati. Volevo andare a mangiare"

Mi alzai e sentii come se per un momento il mio cuore si fermasse. Un senso di ambigua felicità mi avvolse.

"Questa mattina ho scoperto di essere incinta"

Gli sorrisi con estrema dolcezza, ma fu una cosa naturale. Non ero obbligata a farlo: sorrisi solo perché ero felice.

Immaginai mio padre abbracciarmi, dopo anni. Immaginai mio padre piangere per la gioia anche se non lo aveva mai fatto. Immaginai mio padre felice per sua figlia che era riuscita a farsi una nuova vita dopo tante sofferenze.

Agorafobia; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora