3. La silenziosa
Mi passai il dorso della mano sulla fronte, spostando alcune ciocche di capelli che mi ricadevano sul volto, cercando di non sporcarle con la vernice che mi ricopriva gran parte della mano.
Ero in camera mia e aspettavo che mio padre tornasse da lavoro. Ero rimasta a casa da sola e sinceramente non esisteva momento migliore per ritagliare un piccolo spazio tutto per me.
Da quando Maria era andata a casa lasciandomi da sola, mi ero barricata nella mia stanza a dipingere.
Avevo cominciato un volto nuovo, da zero, esso aspettava solo che mettessi assieme tutti i pezzi del suo puzzle.
Mi soffermai un attimo a guardare il mio nuovo disegno.
Fuori pioveva. Le gocce di pioggia cadevano violente sulla finestra; una singola gocciolina non faceva tanto effetto, ma tutte assieme facevano la differenza.
Mi morsi il labbro inferiore e continuai a guardare la tela che avevo appena colorato, privandola del suo naturale colore bianco, apatico e vuoto, un po' come mi sentivo io in quel momento.
Amavo dare vita alle cose, o ancora meglio farle rinascere e farle sentire vive dopo un momento di inutilità e smarrimento.
Il mio disegno ritraeva una donna. Una giovane donna, capelli di media lunghezza, neri. Neri come il catrame, neri come il buio. Occhi fissi su chi la osservava come se volesse raccontagli una storia, anch'essi scuri. Labbra serrate, rosee. Viso pallido, sguardo perso. Parecchie macchie rosse o piccole chiazze blu, le arrivavano in faccia, spostando l'interesse dell'osservatore non più al suo viso tetro e brillante, ma a quest'ultime.
Sorrisi soddisfatta. Non era venuto per niente male.
Sentii la macchina di mio padre arrivare e mi affacciai alla finestra. Fuori era veramente buio, i lampioni e le luci delle macchine e delle case sembravano puntini nel cielo stellato.
Vidi mio padre scendere dalla macchina: indossava il suo solito berretto di lana in modo da ricoprire i suoi capelli grigi, ma ancora pieni di fascino e storie da raccontare, e come sempre aveva le mani in tasca.
Uscii dalla mia camera e andai in bagno. Mentre mi lavavo le mani, la vernice scivolava via dalla mia pelle come potrebbe scivolare una bambina sul ghiaccio.
Sentii la porta d'ingresso aprirsi e poi la solita frase che mio padre pronunciava appena rincasava, come per controllare che fossi ancora viva.
"Gen, sono tornato"
Mi asciugai e mani e andai da lui.
Ed eccola lì, intento a togliersi il cappotto marrone e appoggiarlo sull'appendiabiti, l'unica persona che mi era rimasta nella vita.
Dopo la morte di mia madre, nonstante non fosse veramente vecchio, mio padre iniziò a cambiare tanto. Diventò più magro e i suoi capelli mossi marron castagna diventarono grigi e spenti, ma non cambiò soltamente nell'aspetto fisico. Diventò molto più possessivo nei miei confronti, si rifugiò nel lavoro e perse tutte le sue passioni.
Continuava a negare che l'abbandono da parte di mia mamma non lo distrusse tanto, continuando a negare la realtà a sé stesso."Ciao papà" dissi baciandogli la guancia, dovendomi alzare sulle punte dei piedi.
La sua alta statura non finiva mai di sorprendermi, nemmeno dopo tutti questi anni.
"Come va tesoro?" mi chiese togliendosi le scarpe per poi metterle nell'apposito posto.
Annuii nonostante non avesse molto senso farlo.
"Bene, il solito, nulla di nuovo. Non succedono tante cose entusiasmanti in questa casa" ripresi con una squallida ironia."Se magari uscissi un po'..."
Lo guardai dopo quella frase. Si notava a chilometri di distanza che era un concetto pensato ad alta voce, ovviamente per errore. Gli capitava spesso ed ogni volta era moritificato, perché sapeva quello era un argomento alquanto delicato e che avere quel problema mi facesse sentire piccola come persona, fragile come un lampadario di cristallo e tremendamente inutile. Mi faceva sentire talmente inutile da farmi pensare che occupassi solo spazio, mi faceva sentire un grazioso rifuito della società, in poche parole.
"Scusami" disse mortificato, "non volevo dirti nulla"
Sorrisi velocemente.
"Va tutto bene, non è colpa tua papà"Sospirai.
L'aria era piena di imbarazzo in quel momento. Ci capitava piuttosto spesso e ogni volta qualcuno dei due doveva trovare un argomento di riserva. Però in quel momento non avevo molta fantasia, soprattutto una fantasia che dovrebbe dar vita ad un altro discorso.Per fortuna, a mio padre la fantasia non mancava.
"Hai dipinto oggi?" "disse ridendo, indicando la mia maglietta sporca di pittura.Feci cenno di sì con il capo, sperando a qualche spunto per un argomento che potesse ancora distruggere definitivamente l'imbarazzo tra di noi.
"Posso vedere il tuo disegno?"
"Certo" risposi, felice che l'imbarazzo se ne fosse finalmente andanto.
Andai in camera mia, seguita da mio padre, per poi mostrargli il mio quadro.
Mi misi seduta sul mio letto mentre lui fissava la mia donna nel disegno.Dopo pochi istanti sorrise.
"È davvero bello, Gen. Mi piace un sacco"Sorrisi felice e fiera di me stessa.
"Sono felice che ti piaccia""Ha un nome?" mi domandò. Sapeva che odiavo dare i nomi ai miei disegni, eppure me lo chiedeva sempre.
"Sì"
"E quale?"
"La silenziosa" risposi senza pensarci, anche se non era il suo vero nome. Lei non aveva un nome.
"Come mai?"
"Perché lei ha deciso di non parlare più"
"Davvero? E per quale motivo?"
"Perché non aveva una ragione per esprimere la sua opinione. O forse perché a nessuno importava davvero di quello che pensava, o forse entrambe. In realtà non aveva un motivo per parlare, non aveva nessuno con cui condividere le sue idee, probabilmente perché nessuno la capiva"
***
Mangiammo pasta per cena. Mangiammo in silenzio, senza parlare troppo, come facevamo sempre.
Andò tutto come ogni giorno, fino a che non disse una frase che mi spiazzò. La disse dal niente, senza un concetto o un'idea che portasse a quel discorso, lasciandomi a bocca aperta.
"Da domani ci non sarà Maria a farti compagnia"
Appoggiai la forchetta sul piatto, guardandolo confusa.
"Cosa? E perché?"
Lui continuò a mangiare, come se nulla fosse.
"Maria è anziana, Gen. Ha una certa età"
"Lo so, lo capisco" risposi, "ma non capisco perchè non me lo hai detto prima"
Fece per dire qualcos'altro, ma lo bloccai.
"Fa niente, voglio bene a Maria, ma starò sicuramente meglio da sola"Bevve un sorso d'acqua e mi fissò, aveva ancora le labbra bagnate.
"Non sarai sola, da domani ci sarà un'altra persona a farti compagnia"
Mi stavo trattenendo dallo sbraitare.
"Non ne trovo il bisogno, papà. Ho ventitrè anni e la vedo una cosa parecchio esagerata"Continuò la mangiare la sua cena.
"Non se ne parla. Non mi piace l'idea che tu stia da sola tutto il giorno""Ma chi starà con me?" Chiesi sbuffando. Odiavo essere soppressa. Lui lo faceva sempre.
"Lo scoprirai domani, ma ora non è importante"
E detto questo si alzò senza rivolgermi la parola.
STAI LEGGENDO
Agorafobia; jdb
Fanfiction«L'agorafobia è la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all'aperto, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fu...