30. Questo è il paradiso

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30. Questo è il paradiso

Mi ritrovai ancora una volta davanti alla porta. Sentivo il cuore esplodermi nel petto per la paura. La paura di non farcela a cambiare. La paura di affrontare un'altra amara delusione. La paura del fallimento, di una vita sprecata, di respirare semplicemente per abitudine, senza nessuno scopo, non la paura di uscire di casa.

Justin aprì la porta e uscì. Provai invidia per la naturalezza del suo gesto.

Mi bloccai nell'esatto punto in cui la porta si apriva, segnando il confine del nostro appartamento.
Feci un profondo respiro.

"Le insicurezze vanno trasformate in coraggio" dissi "un giorno mi dicesti questo"

Justin annuì.
"Le paure esistono per darci un'occasione per superare noi stessi. Non sono altro che semplici emozioni, di diverso hanno solo la reazione che provocano dentro di noi. Puoi sconfiggerle perché se ci pensi, cosa sono, in fondo? Non hanno una forma, non hanno un odore. Non le puoi toccare e nemmeno immaginare. Non sono niente"

Feci un passo senza accorgermene.

"Tu di cosa hai paura?" domandai a Justin camminando verso di lui, in mezzo al corridoio.

Mi prese la mano e lentamente ci dirigemmo verso le scale.

Sembrava tutto così naturale e Justin non fu sorpreso dal mio gesto.

"Credo che la mia più grande paura sia quella di fallire" rispose alla mia domanda.

"In che cosa?" domandai.

Iniziammo a scendere senza fretta le scale.

"Fallire in generale. Oppure di restare solo"

Mi stupii della sua paura.

Arrivammo al portone e Justin lo aprì.

"Ma se tu sei il primo a dirmi di non aver paura della solitudine, visto che con me ci sarà sempre qualcuno, allora perché il pensiero di essere solo dovrebbe angosciarti?" domandai sorpresa.

C'era ancora aria di pioggia, ma ormai non faceva più così freddo.
Era tutto esattamente come lo avevo lasciato. Gli stessi negozi, le stesse strade e addirittura le stesse persone che con passo svelto si affrettavano ad arrivare a casa o al lavoro.
Il cielo era ancora grigio e alcuni alberi erano ancora spogli.
Sorrisi. In quel momento non mi ricordai nemmeno d'essere uscita di casa.

Alcune persone, quasi correndo e avendo l'aria di chi è in ritardo per un appuntamento impotente, mi vennero contro scambiandomi occhiate per niente amichevoli o commenti poco gentili.

Justin mi riprese la mano e mi attirò verso di sé, togliendomi dal bel mezzo del marciapiede. Lo baciai dalla felicità.

"Allora" disse "dove vuoi andare?"

Scrollai le spalle continuando a guardarmi attorno come una bambina guarda i pupazzi in un negozio.

Justin interruppe i miei pensieri.
"Genesis, non possiamo rimanere qui in mezzo alla strada per sempre" ridacchiò.

Annuii nonostante non mi importasse poi così tanto.

Justin si mise a camminare e iniziai a seguirlo.
Il mio sguardo cadde su una foto appiccicata su una cartolina di un'edicola.

"Justin!" esclamai bloccandolo "andiamo al lago qui vicino!"

Lui acconsentì e salimmo in macchina.
Dopo una decina di minuti, però, mi ricordai di ciò che stavo facendo. Fino a quel momento, era tutto surreale, come in un sogno e la realtà piombò su di me.
Provai di nuovo voglia di correre a casa come un cane con la coda tra le gambe.

Agorafobia; jdbDove le storie prendono vita. Scoprilo ora