38. Rinascita
Entrai in camera sua. Quando aprii la porta la cercai con lo sguardo, ma non era nemmeno lì.
"Mamma" la chiamai di nuovo, ma questa volta a voce più alta.
Portai una mano sulla bocca. Dove poteva essere finita? Sicuramente non era uscita, non andava fuori casa quasi mai.
Dovevo chiamare assolutamente mio padre. La situazione mi stava sfuggendo di mano.
Andai in camera mia, cercando il numero dell'ufficio di papà. Non ero mai riuscita ad impararlo a memoria, perciò dovevo scriverlo su un biglietto che tenevo sempre in camera.Il destino volle che, quel pomeriggio, il biglietto con il numero del suo ufficio fosse scomparso.
In preda all'agitazione, corsi in soffitta. Lì mio padre sbrigava alcuni lavori incompiuti quando non era riuscito a portarli a termine.Corsi in fretta su per le scale e arrivai in soffitta.
Un'ampia zona ben ordinata. Dal lato sinistro un paio mobili vecchi ancora della casa della nonna contenenti alcuni vecchi fogli, miei vecchi giocattoli o attrezzi. Invece, a destra, una semplice scrivania, con alcuni cassetti, e una sedia. Lì mio padre trascorreva insonne alcune notti quando il lavoro era eccessivo.
Proprio in uno di quei cassetti della scrivania, precisamente il secondo dal basso, si trovavano i biglietti da visita con scritto il numero dell'ufficio di mio padre.Avrei dovuto avvicinarmi al cassetto, estrarre il biglietto da visita, tornare di sotto e chiamare mio padre, ma non lo feci. Rimasi perfettamente immobile a fissare mia madre. I suoi piedi non toccavano terra e il suo corpo era sollevato da una corda avvolta su una trave del soffitto.
Il suo volto aveva un colore strano, non naturale. Era ancora rigato dalle lacrime.
Restai a guardarla per troppo tempo, anche se me ne accorsi solo dopo.
Correndo, tornai in camera mia. Non ricordo con esattezza se mi misi sotto il letto o la scrivania. Non sono nemmeno sicura di essere andata in quella stanza.
So solo che non riuscivo a pensare o forse pensavo troppo.
***
Il giorno dopo andai di nuovo fuori, con Justin. In realtà solo per circa mezz'ora, ma lo feci soltanto perché Amber me lo aveva consigliato.
Non mi sentivo proprio a mio agio fuori casa, però uscivo. In realtà andavo fuori solo ed esclusivamente con Justin, anche perché non avevo molte persone con cui trascorrere le mie giornate.
Faceva più caldo. Non c'era molta gente in giro a dire la verità: la città sembrava essersi dimezzata.
Justin ed io camminavamo soltanto e non eravamo diretti da nessuna parte.
A momenti ero tranquilla e sembrava che tutto fosse normale. Agli occhi degli altri eravamo una semplice coppia e nulla di più.
Invece, alcuni istanti mi fermavo, come per rendermi conto di ciò che stavo facendo. Se non mi fermavo, iniziavo ad agitarmi. Allora, Justin mi teneva la mano. Alcune volte lo faceva senza rendersene conto, come se ci fosse qualcosa a fargli capire che stravo per peredere il controllo della situazione anche se mi impegnavo a far finta di niente.La sua empatia era ammirevole.
"Lo sai che cosa ho capito prima?" gli chiesi mentre passavamo davanti ad una grande fontana senza acqua.
Camminammo con passo svelto e sorpassammo anche un negozio di fiori.
Raccontai a Justin tutto ciò che pensavo riguardo a mia madre. Lui, infine, non si dimostrò sorpreso.
"È quello che ti ho sempre detto io, Genesis" mi ricordò.
Non replicai.
Mi domandò perché, secondo me, mi aveva detto sempre quelle cose."In realtà all'inizio non prendevo sul serio le tue parole. Pensavo che tu me le dicessi solo per farmi stare meglio, quando in realtà pensavi tutt'altro"
Si fermò e mi guardò.
"Perché avrei dovuto?" domandò come in un sussurro.
Scrollai le spalle.
Un bambino, in un passeggino trasportato dalla madre con il volto sfinito e stanco, iniziò a strillare.
Dall'altro lato della strada una macchina iniziò a suonare ripetutamente il clacson ad un camioncino bianco che bloccava la sua via. Il proprietario del camioncino bianco arrivò di corsa e l'uomo nell'auto gli urlò un paio di offese.
Da un angolo a sinistra spuntò un gruppo di una diecina di persone, molto probabilmente proveniente da qualche Paese orientale e tutti muniti di macchine fotografiche, il quale era condotto da una ragazza intenta a spiegare loro qualcosa riguardo la nostra città.Tutti quei rumori, quelle persone, quelle voci che si sovrapponevano tra loro, fecero battere il mio cuore all'impazzata.
Justin notò la mia agitazione.
"Vuoi tornare a casa?"Annuii soltanto e tornammo indietro.
***
"Forse adesso, dopo aver risolto questo problema, potrò essere felice. Non credi?"
Justin annuì.
"Finalmente lo hai capito. Non ce la facevo più a vederti star così tanto male"Sorrisi.
"Dici sul serio?"Rispose di sì e quella affermazione mi fece star bene.
Lo baciai a stampo e subito dopo facemmo di nuovo l'amore.
Quel giorno era una rinascita. Potevo finalmente stare bene. Il peggio era passato lasciando spazio al meglio. La pioggia era passata per lasciare spazio al sole, le lacrime avevano finito di scorrere lasciando spazio al sorriso.

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Agorafobia; jdb
Fiksyen Peminat«L'agorafobia è la sensazione di paura o grave disagio che un soggetto prova quando si ritrova in ambienti non familiari o comunque in ampi spazi all'aperto, temendo di non riuscire a controllare la situazione che lo porta a desiderare una via di fu...