<<Tu non mi odi?>>

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Bussai due volte alla porta della stanza di Ray, accanto alla mia. Mia nonna gli aveva dato la camera degli ospiti, quella con le pareti verde acqua e che dava sul mare.

<<Avanti.>> sentii dall'interno della stanza.

Ruotai lentamente la maniglia della porta, come se mi trovassi in un film dell'orrore, ed entrai.

Delle valige piene di vestiti erano sul letto, e altre cianfrusaglie erano sparse per la camera. Sulla scrivania vicino alla finestra, dei libri erano disordinatamente impilati uno sull'altro. Notai di sfuggita un Conan Doyle e un Dickens, poi mi riconcentrai sulle valige aperte, la cui presenza mi stava preoccupando.

<<Ellen? Non mi aspettavo di vederti.>>. Ray posò un paio di mutande sul letto e si avvicinò a me.

<<Che stai facendo?>>. Non era esattamente così che avevo programmato di iniziare il mio discorso, ma quello che avevo visto mi aveva sconvolto talmente tanto da diventare la priorità.

<<Io...Sto facendo i bagagli.>>. Raymond si passò una mano sui capelli disordinati e indicò la valigia sul letto.

<<Lo vedo, ma perché?>>.

<<Beh, è chiaro che qui la mia presenza non è più gradita, insomma...>>, si fermò un istante e si mise seduto sul letto, la testa tra le mani. <<Tu non mi vuoi più qui.>>.

Che stupido che sei, avrei voluto dirgli, ma non lo feci.

Seduto su quel letto, con la testa nascosta tra le mani lo vedevo vulnerabile per la prima volta. Vedevo scoperte le sue ferite per la prima volta. Vedevo rinascere il senso di solitudine e cinismo con il quale aveva vissuto finora.

Mi avvicinai al letto e mi sedetti accanto a lui. Odore di biancheria pulita e menta emanava la maglietta azzurra che indossava.

<<Non fare l'idiota.>> dissi. Raymond alzò la testa, visibilmente confuso. I suoi occhi verdi brillavano di stupore. <<Io ti voglio accanto a me esattamente come tu mi hai voluto accanto a te fino adesso.>>.

Ray voleva dire qualcosa. Tentava di aprir bocca ma poi la richiudeva, come se invece di provare a parlare, stesse facendo un esercizio fisico. Così continuai io.

<<Se la mia presenza ti fa stare bene non mi importa a chi io possa mai assomigliare. Mi basta sapere di aver fatto felice qualcuno.>>, mi interruppi un attimo, cercando di trovare il coraggio per dire quello che avrei detto dopo, senza apparire sdolcinata, <<Mi basta sapere di aver fatto felice te.>>

Non mi ero accorta di aver abbassato lo sguardo mentre parlavo. I miei occhi ora studiavano le mie mani mangiucchiate, attendendo che Ray dicesse qualcosa.

Ma Ray era silenzioso. Muto come un sasso nel deserto.

Percepivo il suo sguardo serio su di me. Lo sentivo entrare e cercare di capire chi ero. Avrei voluto sollevare il viso e scambiare delle parole silenziose con il mio interlocutore, ma non ci riuscivo. Era come se i miei occhi si fossero incollati sulle mie mani.

Così mi sorpresi quando Ray, con la stessa delicatezza con cui si raccoglie un fiore, sollevò il mio mento e lo voltò verso di lui.

Due lanterne verdi mi fissavano in silenzio. Verde, pensai. Il colore della speranza.

<<Hai pianto per colpa mia?>> disse ad un tratto Ray, la mano ancora sul mio mento.

<<Non ha importanza.>>. Riuscì a far spuntare un sorriso sul mio volto stanco, ma gli occhi lucidi mi tradirono.

Ray raccolse con il pollice una lacrima invisibile scesa lungo la mia guancia. Il suo sguardo era cupo come il cielo prima di una temporale. Ce l'aveva con se stesso per avermi ferito, glielo leggevo nell'anima.

<<Mi dispiace così tanto.>> disse, la mano ancora sul mio viso, i suoi occhi ancora incatenati ai miei.

<<È tutto a posto.>>, annuii, mettendo la mia mano sopra la sua e accarezzandola per rassicurarlo. <<Non ce l'ho con te.>>

Ray scostò la mano dal mio viso e si alzò in piedi, mettendosi con le spalle al muro davanti a me. Mi osservava da lontano, come se dovesse decidere qualcosa nella sua testa.

Passò qualche minuto che a me parve un'eternità prima che parlasse.

<<Certo che non ce l'hai con me. Sei troppo buona per incazzarti con me.>>. Un confuso sorriso accompagnava le sue parole, poi aggiunse: <<Tu...tu non mi odi?>>.

Decisi che era il momento di allentare la tensione, di qualunque tipo di tensione si fosse trattato. Non mi piaceva vedere Ray in quello stato: disorientato ed insicuro.

<<Nah,>> risposi scherzosamente, <<almeno non più del solito.>>.

Finalmente il sorriso che fino a poco fa era vago ed impacciato si trasformò nel solito sorriso sfacciato e giocoso. Lo stesso sorriso che non avevo visto per due giorni e che da due notti mi impediva di dormire tranquillamente.

<<E poi,>>, aggiunsi, <<non potresti andare via senza prima avermi insegnato a cucinare i tuoi deliziosi muffin cioccolato e cannella.>>.

Sapevo che con queste parole gli avrei ricordato nuovamente Rachel, che amava cucinargli i muffin, ed era per questo lo avevo fatto. Non ero lì per fargli scordare il suo primo amore, ma ero lì per fargli capire che i ricordi sono come una tazza di caffè: scegliamo noi di quanto addolcirli, se metterci lo zucchero o se prenderli amaro; ed io, beh, volevo poter prendere un dolce caffè con lui, indipendentemente dal fatto che ne fossi innamorata o meno. Scelsi i muffin perché rappresentavano un ricordo felice che col tempo aveva perso i suoi colori. Volevo poter ricolorare quel ricordo e restituirgli la sua bellezza.

Ray si staccò dal muro e si avvicinò alla valigia sul letto. Gli lanciò un'occhiata e poi tornò a guardare me. Un risolino impertinente era sbucato dal nulla.

<<Certo, ma solo se sta volta sei tu ad indossare il grembiule. Intendo solo il grembiule.>>, e tirandogli una sberla sul braccio, seppi che le cose erano tornate davvero normali tra noi.

Tutte le cose eccetto una: mi stavo senza dubbio innamorando di lui.


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